giovedì 26 luglio 2012


Sangre taina

L'isola di Mayaguana è la più meridionale delle Bahamas e giace al limitare del grande salto nell'Atlantico, più o meno alla stessa distanza da Cuba e Haiti o meglio (come agli abitanti piace dire) a metà strada tra la Florida e Puerto Rico (sembra che questa localizzazione suoni più familiare e simpatica ai turisti).
È qui, in un piccolo “settlement” sulla costa occidentale chiamato Pirates Well che incontro Izel Amertil, un'anziana ma pimpante signora caraibica, che da sempre vive e lavora al Baycaner Beach Resort. Che a dire il vero ha poco del resort, ma almeno si può pagare con la carta di credito.
Izel mi racconta la storia della sua famiglia, una delle prime a migrare da Turks Island, un'isola molto più grande a circa 60 km a sud di qui, all'inizio del diciannovesimo secolo. Prima di allora quest'isola era deserta, eccezion fatta per un antico e misero approdo spagnolo, semidistrutto e da tempo inutilizzato.
Il racconto è molto avvincente e io non la interrompo quasi mai. Ad un tratto però, quando pronuncio la parola “caraibica” lei si blocca e per le prima volta la sua giovialità si affievolisce. Capisco di aver detto qualcosa di sbagliato, forse di offensivo.
Yo no soy caribe” mi dice, calcando molto l'ultima parola. “Yo tengo sangre taìna!”
Izel mi spiega che i taìnos erano gli abitanti pre-colombiani di quella parte delle Antille, dalle Bahamas fino a Puerto Rico, Hispaniola e gran parte di Cuba (ma non tutta, precisa). L'arrivo degli europei li ridusse drasticamente e oggi si ritiene una etnia scomparsa. Izel però insiste nel dire che ha sangue cento per cento taìno e mi convince a visitare la sua collezione di cimeli indigeni.
In una piccola e buia stanza della casa, non lontana dal resort, ha allestito una sorta di museo personale, fatto di monili e oggetti per la pesca, statuette bizzarre e pietre incise. Ma il pezzo che mi incuriosisce di più, e che si trova al centro della camera, è la statuetta di una divinità, dalla faccia allungata e deforme, attaccata ad un corpo sproporzionatamente piccolo. Izel mi spiega trattarsi di Yucahù, lo spirito buono, fratello di Juracàn, dio malvagio dei fulmini e delle tempeste (dal quale poco dopo intuisco deriva il termine spagnolo huracan, che vuol dire proprio uragano, fenomeno evidentemente sconosciuto agli iberici prima di “scoprire” quei luoghi). Mi dice che un suo avo, che era un importante cacique, un capo villaggio, usava questa statuetta per contrastare le tempeste marine. Secondo i racconti dei suoi nonni, questo avo, di nome Jumacao, una volta fece un patto con Juracàn e riuscì a fermare una terribile tempesta che aveva già distrutto i villaggi di alcune isole vicine, proprio al limitare della baia. E da quel giorno, finché egli fu in vita, Juracàn non disturbò più l'isola. Ma quando egli morì il dio si ripresentò, con più violenza della volta precedente e gli abitanti furono costretti a scappare. Da quel giorno l'isola venne inghiottita dalle acque scure dell'oceano.
Prometto a Izel di scrivere un racconto su questa storia e lei mi regala un pezzetto di pietra, nel quale si intravede un'incisione sbeccata. Izel mi dice che faceva parte della casa del suo avo. Oggi quel pezzetto di pietra è incastonato sopra la porta di casa nostra.

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