lunedì 23 aprile 2012


Pus

Il ragazzo seduto di fronte a me ha una spalla lussata. Ha dato un pugno a un tipo fuori dalla discoteca e il contraccolpo gli ha scardinato i legamenti. La sua ragazza si è accorta che li sto fissando e mi dice: “Gli era già successo una volta, l’anno scorso…”. Io annuisco e accenno un sorriso. “Mi difende sempre…” prosegue, e le scappa un sospiro tenero mentre gli accarezza il volto grassoccio. Lui sembra non accorgersi di nulla, fissa un punto nel vuoto ma l’inclinazione della bocca lascia intendere che sta rivivendo a nastro e al rallentatore lo scontro di circa un’ora prima. Non è proprio il tipo che uno direbbe capace di fare a pugni. Anzi, in questo momento sembra quasi spaventato, buttato sulla sedia come un burattino al quale siano stati staccati i fili. Lei è molto svestita, troppo anche per fine agosto, e non capisco se sia carina o meno. So solo che devo dire qualcosa per evitare di guardarle le cosce. “Io invece ho solo male a una gamba. Mi sa che entrate prima voi di me.”. Non ci diciamo altro. Il ragazzo si alza di scatto e inizia a passeggiare attorno alla colonna che separa la piccola sala d’aspetto dalla corsia delle emergenze.
Lo spettacolo è alquanto penoso. Sta tutto piegato da una parte con la mano che gli sfiora il ginocchio. Si guarda intorno come se non sapesse dove si trova. Ogni tanto si appoggia a una sedia o si ferma immobile di fronte alla porta della guardiola, senza dire niente, poi riprende la sua ronda malferma. Lei lo segue con lo sguardo e lo lascia fare. Sta seduta sul bordo della panchina, pronta a scattare ad un minimo segno di cedimento. Si vede che lo ama, o per lo meno lo ama questa sera che ha difeso il suo onore. Vorrei anch'io avere qualcuno con me, ma ho mollato la mia ragazza da due giorni perciò ora me ne sto qui da solo, a fissare una piastrella sbeccata, invidioso della coppietta di discotecari.
Arrivano gli amici del tipo con notizie fresche sul suo rivale. Sono estremamente eccitati perché lo hanno portato in un altro ospedale, altrimenti sai che culo gli facevano se metteva il naso lì? Cioè, non tornava più a casa quello! Ovviamente lui non li ascolta e loro insistono. Ma la ragazza è bravissima a tenerli buoni. Li manda fuori, a fumare, e pochi istanti dopo l’infermiere li fa accomodare in Triage 2.
Piombo in un silenzio asettico e rilassante e mi accorgo di avere un leggero ronzio nelle orecchie. Immagino di averlo sempre ma evidentemente di solito viene coperto dai pensieri o da altri rumori.
L'infermiera sbuca di colpo dal corridoio, io alzo una mano e faccio per parlare ma lei non mi considera e sparisce immediatamente dietro la porta scorrevole di terapia intensiva. Una smorfia accompagna la fitta alla coscia e la mia irritazione. Mi rimetto a sedere e appoggio la testa al muro tiepido. Allungo le gambe per distendere la pelle, così mi sembra che faccia meno male. In effetti trovo un po’ di sollievo ma inizia a prudere tutto intorno alla ferita e so che non mi posso grattare. Muovo il piede su e giù facendo sbattere il tallone ma la situazione non cambia di molto. Allora inizio a massaggiarmi poco sotto l'inguine sperando che faccia effetto anche una spanna più in basso. Niente, il prurito aumenta. Appoggio anche la seconda mano alla coscia, ma vicino al ginocchio. Massaggio, prima in un senso e poi nell’altro, mi do dei pizzicotti. Vorrei togliermi i pantaloni per poterci soffiare sopra. Stringo i denti e mi volto verso la guardiola nella speranza che si apra quella cazzo di porta. Mi chiedo perché non mi sono messo i pantaloni corti. In realtà lo so bene; era per la vergogna di farmi vedere con una roba del genere sulla gamba. Torno a sbattere il tallone.
È una settimana che va avanti così. All’inizio ho lasciato stare, sperando che passasse da solo. Poi ho cercato di metterci le mani e ho fatto più danni che altro. A quel punto ho tentato con creme e pomate ma era già troppo tardi. Quando la mia dottoressa lo ha visto mi ha guardato come si guarda un cretino e mi ha spedito dal dermatologo. Avrei un appuntamento per lunedì.
Una voce nasale dall’altoparlante annuncia il mio cognome.
Nell’ambulatorio ci sono due infermiere e un dottore sulla quarantina. Tre persone tutte per me. Buon segno. La domanda giunge rapida e spietata. “Ma da quanto tempo ha questa cosa?” “Qualche giorno” mento “pensavo fosse una semplice puntura d’insetto e l’ho lasciata stare.” “Ha provato a strizzarla?” La domanda è superflua. Al centro dell’infezione, che oramai ricopre un’area grande quanto il palmo di una mano, c’è una crosta informe e a più strati, scura e rugosa. Sembra il cratere di un vulcano di magma verdognolo, una piccola gora dell’eterno pus. Guardiamo tutti in basso, corrucciati. Vorrei non avere mutande bianche. “Senta, non posso farle l’anestesia. L’infezione è troppo estesa e non raggiungerebbe in ogni caso i capillari.” Mi volto verso di lui e capisco che non ci sono alternative valide. “Dobbiamo amputare”. No, in realtà mi dice: “Se le dà fastidio le conviene guardare in alto.” Non me lo faccio ripetere due volte. Mi aggrappo alla testata del lettino ed inizio a fare lunghi respiri. Spero nell’effetto mitigatore del ghiaccio secco. Ricordo che l’ allenatore me lo spruzzava sulle mani quando mi si incassavano le dita per una pallonata o uno scontro sotto canestro. Per i primi due secondi non sentivi niente. Poi arrivava un’ondata di freddo siderale e il dolore veniva sovrastato da un indolenzimento insopportabile. “Farà male?” Chiedo, ironico. “Un po’…” dice lui, mentre fa cenno all’infermiera più giovane di prendere i divaricatori. Li osservo bene. Sono due piccoli uncini dotati di un lungo manico che permette a chi li utilizza di stare ad una certa distanza dalla zona sulla quale si deve intervenire. È l’ultima cosa che vedo prima di buttare la testa all’indietro ed iniziare a fissare il soffitto.
Se chiudo gli occhi fa più male. Lo so, ma non riesco a non farlo. Ad ogni pressione violenta del dottore mi immagino la scena nell’oscurità che ho davanti. Le mani dentro i guanti di lattice premono sulla coscia e il liquido infetto sgorga a densi fiotti multicolore. Ad ogni spinta contraggo gli addominali. Trattengo il respiro. Poi butto fuori l’aria con un urletto soffocato. Ritrovo il ronzio nelle orecchie. No, forse è lo sfrigolio delle micro lacerazioni della carne sotto i ferretti chirurgici. Spreme, spreme. Spingo, respiro affannosamente con la bocca, sudo, contraggo gli addominali e non vedo l’ora che finisca. Mi lascio andare, grido, sbavo oltremodo. Dura dieci minuti, secondo loro.
Dopo l’intervento rimango una mezz’ora abbracciato al bidone dei rifiuti ospedalieri in attesa di un vomito che però non arriva. Alla fine mi alzo, mi sciacquo la bocca e passo a ritirare il referto.
Passeggio nel viale alberato nell’ultima ora di buio. La città sembra non esistere. So bene che cosa ho avuto ma voglio leggerlo per vederne la definizione esatta. Anamnesi: ascesso sottocutaneo con flogosi dei tessuti molli circostanti coscia sinistra. Incisione, toilette e tampone.
Si richiede ciclo di medicazioni dermatologiche.

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