Pus
Il
ragazzo seduto di fronte a me ha una spalla lussata. Ha dato un pugno
a un tipo fuori dalla discoteca e il contraccolpo gli ha scardinato i
legamenti. La sua ragazza si è accorta che li sto fissando e mi
dice: “Gli era già successo una volta, l’anno scorso…”. Io
annuisco e accenno un sorriso. “Mi difende sempre…” prosegue, e
le scappa un sospiro tenero mentre gli accarezza il volto grassoccio.
Lui sembra non accorgersi di nulla, fissa un punto nel vuoto ma
l’inclinazione della bocca lascia intendere che sta rivivendo a
nastro e al rallentatore lo scontro di circa un’ora prima. Non è
proprio il tipo che uno direbbe capace di fare a pugni. Anzi, in
questo momento sembra quasi spaventato, buttato sulla sedia come un
burattino al quale siano stati staccati i fili. Lei è molto
svestita, troppo anche per fine agosto, e non capisco se sia carina o
meno. So solo che devo dire qualcosa per evitare di guardarle le
cosce. “Io invece ho solo male a una gamba. Mi sa che entrate prima
voi di me.”. Non ci diciamo altro. Il ragazzo si alza di scatto e
inizia a passeggiare attorno alla colonna che separa la piccola sala
d’aspetto dalla corsia delle emergenze.
Lo
spettacolo è alquanto penoso. Sta tutto piegato da una parte con la
mano che gli sfiora il ginocchio. Si guarda intorno come se non
sapesse dove si trova. Ogni tanto si appoggia a una sedia o si ferma
immobile di fronte alla porta della guardiola, senza dire niente, poi
riprende la sua ronda malferma. Lei lo segue con lo sguardo e lo
lascia fare. Sta seduta sul bordo della panchina, pronta a scattare
ad un minimo segno di cedimento. Si vede che lo ama, o per lo meno lo
ama questa sera che ha difeso il suo onore. Vorrei anch'io avere
qualcuno con me, ma ho mollato la mia ragazza da due giorni perciò
ora me ne sto qui da solo, a fissare una piastrella sbeccata,
invidioso della coppietta di discotecari.
Arrivano
gli amici del tipo con notizie fresche sul suo rivale. Sono
estremamente eccitati perché lo hanno portato in un altro ospedale,
altrimenti sai che culo gli facevano se metteva il naso lì? Cioè,
non tornava più a casa quello! Ovviamente lui non li ascolta e loro
insistono. Ma la ragazza è bravissima a tenerli buoni. Li manda
fuori, a fumare, e pochi istanti dopo l’infermiere li fa accomodare
in Triage 2.
Piombo
in un silenzio asettico e rilassante e mi accorgo di avere un leggero
ronzio nelle orecchie. Immagino di averlo sempre ma evidentemente di
solito viene coperto dai pensieri o da altri rumori.
L'infermiera
sbuca di colpo dal corridoio, io alzo una mano e faccio per parlare
ma lei non mi considera e sparisce immediatamente dietro la porta
scorrevole di terapia intensiva. Una smorfia accompagna la fitta alla
coscia e la mia irritazione. Mi rimetto a sedere e appoggio la testa
al muro tiepido. Allungo le gambe per distendere la pelle, così mi
sembra che faccia meno male. In effetti trovo un po’ di sollievo ma
inizia a prudere tutto intorno alla ferita e so che non mi posso
grattare. Muovo il piede su e giù facendo sbattere il tallone ma la
situazione non cambia di molto. Allora inizio a massaggiarmi poco
sotto l'inguine sperando che faccia effetto anche una spanna più
in basso. Niente, il prurito aumenta. Appoggio anche la seconda mano
alla coscia, ma vicino al ginocchio. Massaggio, prima in un senso e poi
nell’altro, mi do dei pizzicotti. Vorrei togliermi i pantaloni per
poterci soffiare sopra. Stringo i denti e mi volto verso la guardiola
nella speranza che si apra quella cazzo di porta. Mi chiedo perché
non mi sono messo i pantaloni corti. In realtà lo so bene; era per
la vergogna di farmi vedere con una roba del genere sulla gamba.
Torno a sbattere il tallone.
È
una settimana che va avanti così. All’inizio ho lasciato stare,
sperando che passasse da solo. Poi ho cercato di metterci le mani e
ho fatto più danni che altro. A quel punto ho tentato con creme e
pomate ma era già troppo tardi. Quando la mia dottoressa lo ha visto
mi ha guardato come si guarda un cretino e mi ha spedito dal
dermatologo. Avrei un appuntamento per lunedì.
Una
voce nasale dall’altoparlante annuncia il mio cognome.
Nell’ambulatorio
ci sono due infermiere e un dottore sulla quarantina. Tre persone
tutte per me. Buon segno. La domanda giunge rapida e spietata. “Ma
da quanto tempo ha questa cosa?” “Qualche giorno” mento
“pensavo fosse una semplice puntura d’insetto e l’ho lasciata
stare.” “Ha provato a strizzarla?” La domanda è superflua. Al
centro dell’infezione, che oramai ricopre un’area grande quanto
il palmo di una mano, c’è una crosta informe e a più strati,
scura e rugosa. Sembra il cratere di un vulcano di magma verdognolo,
una piccola gora dell’eterno pus. Guardiamo tutti in basso,
corrucciati. Vorrei non avere mutande bianche. “Senta, non posso
farle l’anestesia. L’infezione è troppo estesa e non
raggiungerebbe in ogni caso i capillari.” Mi volto verso di lui e
capisco che non ci sono alternative valide. “Dobbiamo amputare”.
No, in realtà mi dice: “Se le dà fastidio le conviene guardare in
alto.” Non me lo faccio ripetere due volte. Mi aggrappo alla
testata del lettino ed inizio a fare lunghi respiri. Spero
nell’effetto mitigatore del ghiaccio secco. Ricordo che l’
allenatore me lo spruzzava sulle mani quando mi si incassavano le
dita per una pallonata o uno scontro sotto canestro. Per i primi due
secondi non sentivi niente. Poi arrivava un’ondata di freddo
siderale e il dolore veniva sovrastato da un indolenzimento insopportabile.
“Farà male?” Chiedo, ironico. “Un po’…” dice lui, mentre
fa cenno all’infermiera più giovane di prendere i divaricatori. Li
osservo bene. Sono due piccoli uncini dotati di un lungo manico che
permette a chi li utilizza di stare ad una certa distanza dalla zona
sulla quale si deve intervenire. È l’ultima cosa che vedo prima di
buttare la testa all’indietro ed iniziare a fissare il soffitto.
Se
chiudo gli occhi fa più male. Lo so, ma non riesco a non farlo. Ad
ogni pressione violenta del dottore mi immagino la scena
nell’oscurità che ho davanti. Le mani dentro i guanti di lattice
premono sulla coscia e il liquido infetto sgorga a densi fiotti
multicolore. Ad ogni spinta contraggo gli addominali. Trattengo il
respiro. Poi butto fuori l’aria con un urletto soffocato. Ritrovo
il ronzio nelle orecchie. No, forse è lo sfrigolio delle micro
lacerazioni della carne sotto i ferretti chirurgici. Spreme, spreme.
Spingo, respiro affannosamente con la bocca, sudo, contraggo gli
addominali e non vedo l’ora che finisca. Mi lascio andare, grido,
sbavo oltremodo. Dura dieci minuti, secondo loro.
Dopo
l’intervento rimango una mezz’ora abbracciato al bidone dei
rifiuti ospedalieri in attesa di un vomito che però non arriva. Alla
fine mi alzo, mi sciacquo la bocca e passo a ritirare il referto.
Passeggio
nel viale alberato nell’ultima ora di buio. La città sembra non
esistere. So bene che cosa ho avuto ma voglio leggerlo per vederne la
definizione esatta. Anamnesi: ascesso sottocutaneo con flogosi dei
tessuti molli circostanti coscia sinistra. Incisione, toilette e
tampone.
Si
richiede ciclo di medicazioni dermatologiche.
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