giovedì 13 settembre 2012


Satelliti

Mi svegliai a mezzogiorno passato e pioveva a dirotto. La sveglia stava suonando per la millesima volta. Realizzai quasi subito che ero in ritardo di circa tre ore, ma non mi preoccupai. Avevo disimparato a farlo, tanto era più forte di me.
Lei mi aspettava per colazione ma, presumibilmente, aveva smesso di aspettare da tempo. Era inutile che mi affrettassi, quindi mi diressi lentamente verso la cucina, ciondolando pesantemente e cercando sostegno contro gli stipiti delle porte. Aprii il frigo. Maionese e una banana annerita. Non c’era modo di combinarle. Una volta sarei stato in grado di farlo, pensai. Chiusi il frigo. Mi guardai riflesso nella calamita a forma di mulino a vento e mi feci schifo. Non per la barba di due giorni o per i pestoni, no. Sembravo uno di quei guerrieri nordici del medioevo, votati al loro dio sanguinario e desiderosi di saccheggiare ogni villaggio e ogni bettola dalla tundra fino all’Africa. Sarebbe stato proprio bello. Cosa vuoi fare da grande? Il guerriero sanguinario. E non pensare più a niente. Riaprii il frigo. Vada per la banana annerita.
Quella mattina non l’avevo nemmeno sentita alzarsi dal letto. Se almeno avesse fatto un po’ di rumore, forse non avrei tirato dritto e magari sarei arrivato quasi in orario. Era un po’ anche colpa sua.
Andai in bagno per cercare di togliermi quel fastidioso sapore di marcio dalla bocca. Presi lo spazzolino, poi allungai la mano verso il bicchiere ma andai due volte a vuoto. Il tubetto del dentifricio mi guardava, esanime, ai piedi del sapone liquido. Lei lo aveva spremuto con irreprensibile precisione, arrotolandolo dal fondo. Brava, precisa. Ma per me non ne rimaneva nemmeno un granulo.
Mi lavai senza troppa voglia poi iniziai a frugare tra la pila dei panni da stirare. La giornata era iniziata male; volevo almeno mettermi la mia maglietta di Chuck Norris. Il labbro superiore si increspò leggermente, ad indicare la mia ira funesta, quando mi accorsi che la lavatrice (fatta ovviamente non da me) aveva appena ucciso Chuck, trasformandolo in una XS. Rosa.
Qualcosa mi cadde sulla testa. Mi tastai i capelli, poi guardai in alto per cercare di capire cosa fosse. Una crepa irregolare mi sorrideva beffarda dal soffitto. La seconda goccia mi centrò in pieno l’occhio destro. Mi scansai e mi misi ad osservare l’accumularsi dell’umidità che oramai aveva ricoperto non soltanto il soffitto ma anche gran parte della parete di sostegno. Presto avremmo dovuto fare dei lavori. Per il momento mi accontentai di una bacinella di plastica. Di quel passo si sarebbe riempita in un paio d’ore. Dovevo solo ricordarmi di tornare a svuotarla.
Non mi ricordai.
Tornai nel bagno poco prima di cena e scivolai e caddi e mi feci male all’osso sacro come avevo sperato di non fare mai in vita mia. Se c’è una cosa che non sopporto è proprio il dolore fisico. Soprattutto se sono da solo e non c’è nessuno ad aiutarmi, a curarmi, a consolarmi. Desiderai fortissimo di averla lì, con me, con quel suo sguardo divertito ma indulgente, le sue fossette, le sue parole adatte.
Rimasi in terra per una decina di minuti. Poi il dolore si attenuò e ritrovai le forze per rialzarmi e andai in cucina con una vergognosa voglia di chinotto. Non mi ero ancora accorto che nel lavandino e per terra erano sparsi cocci di bicchieri, come se qualcuno li avesse lasciati apposta affinché qualcun altro ci si ferisse. Li raccolsi a mani nude, attento a non tagliarmi.
Mi tagliai.
Mentre mi mettevo il cerotto realizzai che erano quasi le otto e di lei ancora nessuna notizia. Forse quella volta si era arrabbiata sul serio.
Accesi il televisore e incappai in un vecchio telefilm, uno di quelli che avevo guardato tante volte al liceo, proprio con lei, abbracciati sul divano, quando fingi di annoiarti un po’ per quelle storie sdolcinate e improponibili, ma in realtà speri sempre che capiti anche a te. Oppure quell’altro dove il protagonista guida una macchina parlante, o quello del gruppo di reduci del Vietnam che aiutano i poveretti.
Iniziai a pensare di averne visti veramente troppi. Troppi per non pretendere che poi la mia vita fosse come la vedevo nello schermo. Chissà se a lei era mai successo? Non lo sapevo. Mi imposi di pensare a questa cosa. Se non sapevo nemmeno come la pensava al riguardo non potevo dire di conoscerla veramente. Alle mie spalle la porta d’ingresso, che da tempo immemore sognava un’aggiustatina, cigolò. Finalmente era tornata, pensai.
Pensai male.
Percorsi in un paio di balzi la distanza che separava il divano dallo zerbino, dimenticandomi per un attimo del dolore alla schiena.
Tirai con cautela la maniglia verso di me. Ero pronto a tutto.
Non lo ero.
Sul pianerottolo bagnato dalle sue impronte, c’era un megafono.
Attaccato al megafono c’era un post-it. Rosa.
Sul post-it, rosa, C’era scritto: TI ODIO.
Seguito da ben tre punti esclamativi.

(liberamente ispirato al brano "Satelliti" di Mao)

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