lunedì 30 aprile 2012


Ode ai gregari

Viva Tom Becker, viva John H. Watson, via Jack Dalton, viva Ron Weasley, viva Rone Leah e Garet Jax, viva Chewbacca, viva Fùcur, viva Oscar Wallace, viva Groucho, viva Stephen l'irlandese, viva il Grande Capo Bromden, viva Samwise Gamgee, viva Bagger Vance, viva Gromit, viva Sancho Panza, viva Alfred Pennyworth, viva Wladimiro Panizza, viva Adso, viva Benvolio, viva Guenhwyvar, viva Malarkey, viva Perconte, viva Bagheera, viva Cosmo, viva Little John, viva Fezzik, viva Madmartigan, viva Willard, viva Calcifer, viva Silent Bob, viva Benjamin Beauford “Bubba” Blue, viva Timon e Pumbaa, viva Philippe Gaston, viva Haku, viva Lamont, viva Edward Garlick, viva il Tenente Dan,  viva Nobumoto, viva Suor Maria Roberta.
Viva Betulla.

giovedì 26 aprile 2012


Fagiolini

Le verdure cotte in generale non mi soddisfano, a meno che non siano il condimento di qualcosa, oppure molto insaporite da spezie o aceto o olii di vario genere. In questo modo posso abbozzare su zucchine, melanzane, spinaci, anche il cavolo. Ma con i fagiolini proprio non ce la faccio. E forse so anche il perché.
Uno dei miei ricordi d’infanzia più nitidi risale al tempo della scuola materna. Ci sono io, seduto al tavolino del pranzo mentre tutti gli altri sono già tornati a giocare. C’è la mia maestra, G., che mi costringe a mangiare un piatto per me enorme di fagiolini saltati. La vedo incombere su di me mentre mi ingozzo di pane nel tentativo di mascherare il disgusto per quei vermicelli sguignoli. Ho la bocca che mi scoppia, non riesco a mandare giù. Non c’è spazio nemmeno per l’acqua. Mi metto a piangere ed inizio a far cadere bocconi informi sul vassoio rosa mentre mi porto la forchetta vicino al mento per cercare di arginare la catastrofe.
Alla fine arriva R., un’altra maestra, che prende in mano la situazione, mi porta in bagno per sputare tutto e poi mi dice che posso andare in cortile con i miei compagni.
L’anno successivo la maestra G. non si è più vista in quella scuola.
Da grande ho cercato di razionalizzare quell’ovvia, profonda avversione, ma con scarsi risultati. Ho provato più volte a farmeli piacere, convinto che un episodio come quello non fosse sufficiente a generare un odio immortale. Li ho assaggiati, a più riprese, ma proprio non mi piacciono, come allora. È una questione tattile. Così come con il budino e le pesche sciroppate, il mio palato non tollera le sostanza viscide e scivolose. Mi si chiude l’esofago immediatamente e lo stomaco si predispone al rigetto.
Forse questa è la sede giusta per sfatare un mito. Mamma, nonna, zie: le verdure mi piacciono! Però non tutte. I fagiolini ad esempio, direi di no.

lunedì 23 aprile 2012


Pus

Il ragazzo seduto di fronte a me ha una spalla lussata. Ha dato un pugno a un tipo fuori dalla discoteca e il contraccolpo gli ha scardinato i legamenti. La sua ragazza si è accorta che li sto fissando e mi dice: “Gli era già successo una volta, l’anno scorso…”. Io annuisco e accenno un sorriso. “Mi difende sempre…” prosegue, e le scappa un sospiro tenero mentre gli accarezza il volto grassoccio. Lui sembra non accorgersi di nulla, fissa un punto nel vuoto ma l’inclinazione della bocca lascia intendere che sta rivivendo a nastro e al rallentatore lo scontro di circa un’ora prima. Non è proprio il tipo che uno direbbe capace di fare a pugni. Anzi, in questo momento sembra quasi spaventato, buttato sulla sedia come un burattino al quale siano stati staccati i fili. Lei è molto svestita, troppo anche per fine agosto, e non capisco se sia carina o meno. So solo che devo dire qualcosa per evitare di guardarle le cosce. “Io invece ho solo male a una gamba. Mi sa che entrate prima voi di me.”. Non ci diciamo altro. Il ragazzo si alza di scatto e inizia a passeggiare attorno alla colonna che separa la piccola sala d’aspetto dalla corsia delle emergenze.
Lo spettacolo è alquanto penoso. Sta tutto piegato da una parte con la mano che gli sfiora il ginocchio. Si guarda intorno come se non sapesse dove si trova. Ogni tanto si appoggia a una sedia o si ferma immobile di fronte alla porta della guardiola, senza dire niente, poi riprende la sua ronda malferma. Lei lo segue con lo sguardo e lo lascia fare. Sta seduta sul bordo della panchina, pronta a scattare ad un minimo segno di cedimento. Si vede che lo ama, o per lo meno lo ama questa sera che ha difeso il suo onore. Vorrei anch'io avere qualcuno con me, ma ho mollato la mia ragazza da due giorni perciò ora me ne sto qui da solo, a fissare una piastrella sbeccata, invidioso della coppietta di discotecari.
Arrivano gli amici del tipo con notizie fresche sul suo rivale. Sono estremamente eccitati perché lo hanno portato in un altro ospedale, altrimenti sai che culo gli facevano se metteva il naso lì? Cioè, non tornava più a casa quello! Ovviamente lui non li ascolta e loro insistono. Ma la ragazza è bravissima a tenerli buoni. Li manda fuori, a fumare, e pochi istanti dopo l’infermiere li fa accomodare in Triage 2.
Piombo in un silenzio asettico e rilassante e mi accorgo di avere un leggero ronzio nelle orecchie. Immagino di averlo sempre ma evidentemente di solito viene coperto dai pensieri o da altri rumori.
L'infermiera sbuca di colpo dal corridoio, io alzo una mano e faccio per parlare ma lei non mi considera e sparisce immediatamente dietro la porta scorrevole di terapia intensiva. Una smorfia accompagna la fitta alla coscia e la mia irritazione. Mi rimetto a sedere e appoggio la testa al muro tiepido. Allungo le gambe per distendere la pelle, così mi sembra che faccia meno male. In effetti trovo un po’ di sollievo ma inizia a prudere tutto intorno alla ferita e so che non mi posso grattare. Muovo il piede su e giù facendo sbattere il tallone ma la situazione non cambia di molto. Allora inizio a massaggiarmi poco sotto l'inguine sperando che faccia effetto anche una spanna più in basso. Niente, il prurito aumenta. Appoggio anche la seconda mano alla coscia, ma vicino al ginocchio. Massaggio, prima in un senso e poi nell’altro, mi do dei pizzicotti. Vorrei togliermi i pantaloni per poterci soffiare sopra. Stringo i denti e mi volto verso la guardiola nella speranza che si apra quella cazzo di porta. Mi chiedo perché non mi sono messo i pantaloni corti. In realtà lo so bene; era per la vergogna di farmi vedere con una roba del genere sulla gamba. Torno a sbattere il tallone.
È una settimana che va avanti così. All’inizio ho lasciato stare, sperando che passasse da solo. Poi ho cercato di metterci le mani e ho fatto più danni che altro. A quel punto ho tentato con creme e pomate ma era già troppo tardi. Quando la mia dottoressa lo ha visto mi ha guardato come si guarda un cretino e mi ha spedito dal dermatologo. Avrei un appuntamento per lunedì.
Una voce nasale dall’altoparlante annuncia il mio cognome.
Nell’ambulatorio ci sono due infermiere e un dottore sulla quarantina. Tre persone tutte per me. Buon segno. La domanda giunge rapida e spietata. “Ma da quanto tempo ha questa cosa?” “Qualche giorno” mento “pensavo fosse una semplice puntura d’insetto e l’ho lasciata stare.” “Ha provato a strizzarla?” La domanda è superflua. Al centro dell’infezione, che oramai ricopre un’area grande quanto il palmo di una mano, c’è una crosta informe e a più strati, scura e rugosa. Sembra il cratere di un vulcano di magma verdognolo, una piccola gora dell’eterno pus. Guardiamo tutti in basso, corrucciati. Vorrei non avere mutande bianche. “Senta, non posso farle l’anestesia. L’infezione è troppo estesa e non raggiungerebbe in ogni caso i capillari.” Mi volto verso di lui e capisco che non ci sono alternative valide. “Dobbiamo amputare”. No, in realtà mi dice: “Se le dà fastidio le conviene guardare in alto.” Non me lo faccio ripetere due volte. Mi aggrappo alla testata del lettino ed inizio a fare lunghi respiri. Spero nell’effetto mitigatore del ghiaccio secco. Ricordo che l’ allenatore me lo spruzzava sulle mani quando mi si incassavano le dita per una pallonata o uno scontro sotto canestro. Per i primi due secondi non sentivi niente. Poi arrivava un’ondata di freddo siderale e il dolore veniva sovrastato da un indolenzimento insopportabile. “Farà male?” Chiedo, ironico. “Un po’…” dice lui, mentre fa cenno all’infermiera più giovane di prendere i divaricatori. Li osservo bene. Sono due piccoli uncini dotati di un lungo manico che permette a chi li utilizza di stare ad una certa distanza dalla zona sulla quale si deve intervenire. È l’ultima cosa che vedo prima di buttare la testa all’indietro ed iniziare a fissare il soffitto.
Se chiudo gli occhi fa più male. Lo so, ma non riesco a non farlo. Ad ogni pressione violenta del dottore mi immagino la scena nell’oscurità che ho davanti. Le mani dentro i guanti di lattice premono sulla coscia e il liquido infetto sgorga a densi fiotti multicolore. Ad ogni spinta contraggo gli addominali. Trattengo il respiro. Poi butto fuori l’aria con un urletto soffocato. Ritrovo il ronzio nelle orecchie. No, forse è lo sfrigolio delle micro lacerazioni della carne sotto i ferretti chirurgici. Spreme, spreme. Spingo, respiro affannosamente con la bocca, sudo, contraggo gli addominali e non vedo l’ora che finisca. Mi lascio andare, grido, sbavo oltremodo. Dura dieci minuti, secondo loro.
Dopo l’intervento rimango una mezz’ora abbracciato al bidone dei rifiuti ospedalieri in attesa di un vomito che però non arriva. Alla fine mi alzo, mi sciacquo la bocca e passo a ritirare il referto.
Passeggio nel viale alberato nell’ultima ora di buio. La città sembra non esistere. So bene che cosa ho avuto ma voglio leggerlo per vederne la definizione esatta. Anamnesi: ascesso sottocutaneo con flogosi dei tessuti molli circostanti coscia sinistra. Incisione, toilette e tampone.
Si richiede ciclo di medicazioni dermatologiche.

giovedì 19 aprile 2012

Becille

Etimologia della parola

Dal francese Becille (pronuncia [b e s i l]); sostantivo che serve ad indicare una persona particolarmente ignorante e grossolana. L’origine dell’espressione sembra essere dovuta indirettamente al compianto Conte Ismahel Antoine de Becille, vissuto in Alsazia a cavallo del diciassettesimo secolo. Il nobile francese, autore tra l’altro del famoso volume ‘Mille e duecento consigli inutili’, si rese protagonista di numerose quanto imbarazzanti disavventure che lo vedevano commettere ripetutamente imperdonabili gaffes ed errori di valutazione. Nella lingua italiana il sostantivo è utilizzato in frasi del tipo: “A 'mbecille!”, versione romanesca della originariamente francese “Tu es un Becille” (lett. “sei un Becille”).




lunedì 16 aprile 2012


America's Cup

In quella che alla fine fu l'edizione 2010 della America's Cup prese vita una grande bagarre, che rese la fase precedente alla competizione molto più interessante della gara stessa.
Due anni e mezzo di processi, miriadi di ricorsi, ripicche, ribaltoni, piccole e grandi vendette che portarono allo svolgimento di una delle più costose e ridicolmente brevi edizioni che la storia della vela ricordi. Tutto questo grazie alle smanie dei partecipanti e alle interpretazioni del Deed of Gift, un documento del 1887, redatto dall'ultimo sopravvissuto dell'equipaggio americano che quasi trent'anni prima aveva sconfitto la flotta inglese in quella che viene considerata la prima Coppa America, allora Coppa delle Cento Ghinee. Il documento, depositato presso la Corte Suprema di New York, detta le regole per l'iscrizione dei partecipanti, la lunghezza delle barche, il luogo delle regate e le norme riguardanti lo sfidante, il Challenger of Record. È un documento assai breve ma denso e affascinante. Ha il sapore dell'età moderna, di una disciplina e un contegno tipicamente anglosassoni ed è incredibile come ancora oggi sia l'unico foglio in grado di redimere una delle competizioni sportive più longeve e più tecnologiche del mondo.
Accade dunque che nel 2007 lo sfidante, il club nautico di Valencia, secondo il Deed of Gift (DoG) non avesse i requisiti per sfidare il Defender, gli svizzeri di Alinghi. Il regolamento prevede infatti che il club sfidante debba aver organizzato almeno una regata annuale, mentre i valenciani si erano costituiti appositamente per la competizione in corso. Allora i neozelandesi chiedono l'intervento della corte suprema dello stato di New York, unica in grado di esprimersi in materia (sempre secondo il DoG) e dopo due gradi di processo ottengono di essere gli sfidanti ufficiali, escludendo di fatto le altre pretendenti che si erano accodate agli spagnoli (il DoG prevede che se i due contendenti principali non si mettono d'accordo devono sfidarsi al meglio delle tre regate, di cui la prima e la terza in linea e la seconda a triangolo). A questo punto il Defender, avendone il diritto, sceglie come luogo della disfida gli Emirati Arabi e come periodo il mese di marzo. Ma il DoG impedisce di regatare nell'emisfero boreale durante l'inverno. Dunque ancora una volta il Challenger vince la causa e la competizione viene spostata a Valencia in estate. Per spiazzare il Defender, i neozelandesi, che da sfidanti possono scegliere il tipo di imbarcazione, propongono provocatoriamente di usare un multiscafo, scelta avvenuta solo una volta, alla fine degli anni ottanta. Del resto loro lavorano da mesi a un trimarano di novanta piedi e sono già molto avanti con i test. Gli svizzeri tuttavia non colgono la provocazione e accettano, iniziando a costruire un catamarano. Ed ecco un nuovo problema: sempre secondo il DoG le imbarcazioni devono essere assemblate in patria e giungere al luogo della regata già pronte. Dunque gli svizzeri son costretti a montare Alinghi nel Lago Lemano e poi a trasportarla con l'elicottero più grande del mondo (di fabbricazione russa) dal Cantone Vallese al mar Ligure, costringendo gli abitanti delle zone interessate al decollo a imbrigliare le tegole delle case per evitarne lo scoperchiamento.
Finalmente, con oltre due anni di ritardo, è tutto pronto e la sfida ha inizio (nonostante sia inverno) al largo della costa spagnola. In realtà altre questioni restano in sospeso, ma il giudice Kornreich deciderà di esprimersi dopo la competizione, alla fine di marzo di quell'anno.
In tutto questo non ci interessa chi abbia vinto. Ci lasciamo semplicemente conquistare dal fascino e la forza inossidabili dei testi antichi e delle gesta.

giovedì 12 aprile 2012


Guardare avanti

Quando posso e ne ho voglia uso la bicicletta, per muovermi in città e per andare al lavoro. Uno dei problemi più frequenti che mi trovo ad affrontare in quei momenti non è tanto la gincana tra le buche o il continuo salire e scendere dalla sella per i passaggi pedonali, quanto le persone che non guardano dove vanno. Ed in particolare non guardano avanti.
Ragazzini all'uscita o all'entrata da scuola, schiacciati dagli zaini enormi oppure intenti a fissare qualcosa lontano da loro; anziani con biciclette a mano, solitamente stracariche di buste di plastica o canne di bambù; signori al telefono o fumatori distratti, signore inconsapevoli che la pista ciclabile non è a senso unico. Guardano tutti in basso o di lato o in alto, pochissimi in avanti. Anche chi è in bici e non dovrebbe sbagliarsi. E spesso devo frenare per non investirli o tamponarli. E quando freno, il rumore o la vicinanza li scuote, li spaventa, come se io non dovessi trovarmi lì. Ammetto che un po' ci gioco e quasi sempre freno all'ultimo, quel tanto che basta per non centrarli. Così in loro subentra la consapevolezza dell'errore, una leggera vergogna, ma la schivata non lascia tempo per scusarsi perché siamo già lontani, forse non ci rivedremo più.
Fisso la scia d'asfalto sotto gli alberi e in lontananza scorgo un collega ciclista. È bello impettito e guarda avanti, senza indugio. Dopo non molto ci incrociamo e gli sorrido, anche se lui non sa il perché.

lunedì 9 aprile 2012


Tettone

Ho sempre avuto una discreta passione per i seni grossi. Comprendo che sia una cosa diffusa, se non altro perché la natura ci calamita verso quegli ineludibili segni di prosperità.
Ma in realtà poi, tu uomo, che ci fai? Certo, vi sono un paio di utilizzi erotici ma di certo non giustificano la durevole attrazione.
Di recente, tuttavia, credo di averne compreso il perché.
I seni grossi naturali, specialmente se indossati da persone di modesta o bassa statura o non particolarmente avvenenti, mi fanno pensare a una personalità peculiare, perché si è dovuta scontrare sin da piccola con una questione che inevitabilmente l'ha fatta crescere prima di chi i seni grandi non li aveva, o magari li aveva ma era una gnocca (troppo facile).
Vuoi per lo sviluppo generale del corpo, vuoi per le prese in giro dei compagni (fino alle medie anche io ero tra quei simpaticoni) che ti costringono a farti forza, vuoi per le invidie o le frecciatine delle amiche. In qualche modo la tua vita è stata molto diversa dalla maggioranza delle altre, è stata precoce. Hai pensato prima a certe cose, ne hai subite prima altre, hai dovuto affrontare prima i maschi. Non è stata facile, anzi spesso forse difficile, e le situazioni difficili ci fanno fare dei salti in avanti a volte anche epocali.
E allora io vi stimo, portatrici di seni grossi, sodi o cadenti che siano. E vi stimerò sempre.

giovedì 5 aprile 2012


Persone motivate

Nell'arco di alcuni giorni ho incontrato due persone molto motivate che mi hanno fatto riflettere.

Ad un incontro sui diritti della maternità e della paternità c'era una sindacalista, una signora romagnola integrale, che spiccava in mezzo alle altre conferenziere. Indossava dei sandali da ginnastica e una felpa di pile colorata, una sciarpa troppo lunga che continuava a rigirarsi e aveva dei capelli arancioni legati alti con un elastico da discount. Commentava con il viso ogni intervento e quando è toccato a lei parlare si è fatta molto accalorata, gesticolava, si agitava sulla sedia. Usava parole come “padroni” e infilava una dietro l'altra proposizioni da manifestazione operaia degli anni settanta. All'inizio mi era sembrata esagerata, sopra le righe e anche un po' fuori tempo massimo. In un certo senso mi dava fastidio, con quella retorica sinistrorsa un po' sorpassata. In sala molti ridevano ma erano anche conquistati. Non sembrava di essere ad un incontro del servizio sanitario ma ad un comizio in piazza. L'eccitazione si era propagata così rapidamente che dopo alcuni minuti pensavo che la gente si sarebbe alzata in piedi e avrebbe tirato fuori striscioni e gonfaloni. Ricordava un po' il discorso di Peppone ai concittadini quando si candida per diventare onorevole. Ne aveva per tutti, dai datori di lavoro ai governi. L'assessora la prendeva in giro, dicendole che poteva anche fare a meno di usare il microfono. Risata plenaria.
Poi ci ha detto una cosa, con gli occhi quasi lucidi: di crederci sempre, di andare a chiedere, che a dire di no ci pensano gli altri. Che se non manteniamo viva almeno la speranza è la fine. E di colpo il silenzio. La demagogia spazzata via, le frasi fatte sciolte nel caldo eccessivo della sala. Finite le mosse inconsce, le battute trite.
Devo andare perché è tardi e mi aspettano, non sentirò gli altri interventi. Me ne vado sul più bello, prima che parole inutili rovinino l'ispirazione.

Porto i miei alunni in biblioteca e, dopo aver visitato le sale antiche, un ragazzo sui trentacinque ci spiega come usare il servizio di ricerca on-line. È un lungagnone dinoccolato, con un po' di barba e una giacca grigia di lana grezza che accentua gli spigoli delle spalle. Un lembo di camicia pende sulla sinistra, ma non stona. Parla con noi quasi preso alla sprovvista, senza troppo metodo. Dovrebbe spiegarci i meandri della maschera di ricerca ma si interrompe mille volte, saluta per nome alcuni giovani avventori, ci dice che la biblioteca è un posto incredibile, dove succedono un sacco di cose. Ci dice che lui ha iniziato tardi a leggere, ma proprio tardi, e che il suo primo libro è arrivato che era già adulto. Ora preferisce passare certe sere con un libro.
I ragazzi lo guardano, non lo stanno sempre a sentire, anche perché è impreciso, si sbaglia, torna indietro, apre parentesi. È emozionato per avere davanti una classe e vuol fare di tutto per convincerli che quello è un posto che merita di essere rivisto, per essere esplorato. Sembra imbranato, ma non lo è.
Quando ce ne andiamo ci fa un saluto militare, un'ultima simpatia. Ci guarda imboccare le scale come alla fine di un appuntamento, quando ti resta in gola il sapore amaro di non sapere se l'hai conquistata.

lunedì 2 aprile 2012


Sottolineatore

L'altro giorno in biblioteca ho preso un saggio da leggere per un esame. Sul foglietto di prestito c'era scritto: molto sottolineato. L'ho aperto e ho controllato lo stesso, sperando che il molto del bibliotecario non fosse poi così tanto.
Era molto sottolineato.
Studiare su un libro sottolineato non è mai piacevole, ma mettersi a cancellare è un lavoraccio, nonché un rischio. Magari una pagina si strappa o qualche parola se ne va con la matita...
Rinuncio, quindi, mi siedo a uno dei tavoli liberi al lato della sala ed inizio a leggere.
Dopo i primi capitoli mi accorgo che, se il libro fosse stato mio, avrei sottolineato praticamente le stesse cose. Non troppe, né troppo poche. Qualche parola cerchiata, un paio di frecce, qualche tratto più pesante di altri. Sembra che io e il sottolineatore abbiamo almeno qualcosa in comune. Magari è solo la scuola che ci ha insegnato a sottolineare tutti allo stesso modo, ma mi piace credere che ci sia di più. É più divertente, ed è un motivo valido per non studiare per qualche minuto.
Chissà chi è.
Dalle linee storte sembrerebbe un maschio. É alto? Baffuto? Un po' gobbo? Magari se ci fossimo conosciuti saremmo andati d'accordo e avremmo riso alle stesse battute. Ma potrebbe essere anche una donna, una sottolineatrice; conosco ragazze che sottolineano anche peggio di così. Capelli corti? Maglietta scura? Una cicatrice leggera sulla guancia? Forse ci saremmo piaciuti, corteggiati, innamorati? Mi sforzo di crederlo per trovare qualche analogia bizzarra su qualcuno che tanto non conoscerò mai.
Mi guardo attorno, in cerca di un volto che possa essere associato a questo libro. Magari è qui. Magari mi sta guardando. Magari viene qui e aspetta che qualcuno prenda quel libro per vedere chi è e che cosa trascrive, se segue le sue impronte.
Scruto la sala come se stessi cercando qualcuno che conosco e che so che è lì, da qualche parte. Ma dopo una dozzina di facce non trovo nessuno che mi soddisfi. Decido che il sottolineatore deve aver preso quel libro molto tempo prima.
Ma quanto tempo prima lo ha letto? Aveva un esame? E sarà andato bene? O era un professore? O semplicemente un curioso della materia?
Sarà ancora vivo?
E come ha fatto il libro a finire in biblioteca? Una donazione, sua o di qualche erede? Donereste mai un libro sottolineato senza averlo prima ripulito? Donereste mai quel libro?
Riprendo a leggere e le sottolineature continuano ad essere niente male.
Mi blocco di nuovo. E se fosse più di uno? Se fossero sottolineature di persone diverse, di anni o addirittura decenni diversi? Allora anche io potrei contribuire! Aggiungendo sottolineature? Cancellandone alcune? Che diritto avrei di cancellarle? Metterne di nuove ancora ancora, ma eliminarne anche solo una!
Faccio una pausa per bere e sgranchirmi le ginocchia. Gioco col gatto nero macchiato di bianco che vaga per il chiostro e mi dimentico della questione.
Torno dentro e proseguo, ignorando le sottolineature. Del resto quando guardiamo qualcosa di scontornato dopo un po' la cornice scompare, no? Come un quadro, gli occhiali o la televisione.
Arrivo all'ultimo capitolo, quasi del tutto privo di sottolineature, giro una pagina e un segno particolarmente storto e invadente mi fa ricordare di colpo tutto quanto. Ecco, quel segno non lo avrei messo. Ma era da un po' che non c'era niente e forse sentiva il bisogno di segnare qualcosa, allora ha messo quel segno con poca voglia, con ancora meno precisione del solito, così tanto per fare. Ma ti pare? Insomma cosa vuoi da me? Cosa vuoi da tutti quelli che leggeranno il libro dopo di te? Spaccone, presuntuoso. Non si mettono segni a caso... Chi eri? Chi sei?
Potevi almeno scrivere “scusate se ho sottolineato, spero sarete d'accordo con me”! Ci avevi mai pensato che quel giorno il libro lo avrebbero usato altri? CHI SEI?
Non lo saprò mai.
Ma la tua presenza è costante, mi costringe a dare più peso a certe parole, meno peso ad altre. Trascrivendole sul foglio accanto non sono più sicuro che avrei fatto le stesse scelte se il libro fosse stato intonso. A volte mi sforzo di non trascrivere ciò che anche tu hai sottolineato, come per dimostrare a me stesso di avere una certa autonomia intellettuale, una certa libertà di scelta. Ma spesso cedo, del resto le tue scelte continuano ad essere così azzeccate!
Finisco il libro, annoto l'ultima citazione. É sottolineata due volte e vicino hai disegnato un asterisco e un punto esclamativo. Anche a te deve essere piaciuta molto. Io magari non avrei messo l'asterisco, mi sa da rimando, da qualcosa di incompiuto. Sto per cancellarlo, ma poi non lo faccio. Non sarò io a turbare i segni del passato.
Richiudo il libro e lo riconsegno, per oggi basta così. Esco fuori e respiro l'aria mite del tramonto. C'è poca gente, nessuno incrocia il mio sguardo.
Per oggi non ti incontrerò.
Salgo in bici, guardo le nuvole, mi torna in mente l'asterisco.
Ciao, sottolineatore, ovunque tu sia.