Satelliti
Mi
svegliai a mezzogiorno passato e pioveva a dirotto. La sveglia stava
suonando per la millesima volta. Realizzai quasi subito che ero in
ritardo di circa tre ore, ma non mi preoccupai. Avevo disimparato a
farlo, tanto era più forte di me.
Lei
mi aspettava per colazione ma, presumibilmente, aveva smesso di
aspettare da tempo. Era inutile che mi affrettassi, quindi mi diressi
lentamente verso la cucina, ciondolando pesantemente e cercando
sostegno contro gli stipiti delle porte. Aprii il frigo. Maionese e
una banana annerita. Non c’era modo di combinarle. Una volta sarei
stato in grado di farlo, pensai. Chiusi il frigo. Mi guardai riflesso
nella calamita a forma di mulino a vento e mi feci schifo. Non per la
barba di due giorni o per i pestoni, no. Sembravo uno di quei
guerrieri nordici del medioevo, votati al loro dio sanguinario e
desiderosi di saccheggiare ogni villaggio e ogni bettola dalla tundra
fino all’Africa. Sarebbe stato proprio bello. Cosa vuoi fare da
grande? Il guerriero sanguinario. E non pensare più a niente.
Riaprii il frigo. Vada per la banana annerita.
Quella
mattina non l’avevo nemmeno sentita alzarsi dal letto. Se almeno
avesse fatto un po’ di rumore, forse non avrei tirato dritto e
magari sarei arrivato quasi in orario. Era un po’ anche colpa sua.
Andai
in bagno per cercare di togliermi quel fastidioso sapore di marcio
dalla bocca. Presi lo spazzolino, poi allungai la mano verso il
bicchiere ma andai due volte a vuoto. Il tubetto del dentifricio mi
guardava, esanime, ai piedi del sapone liquido. Lei lo aveva spremuto
con irreprensibile precisione, arrotolandolo dal fondo. Brava,
precisa. Ma per me non ne rimaneva nemmeno un granulo.
Mi
lavai senza troppa voglia poi iniziai a frugare tra la pila dei panni
da stirare. La giornata era iniziata male; volevo almeno mettermi la
mia maglietta di Chuck Norris. Il labbro superiore si increspò
leggermente, ad indicare la mia ira funesta, quando mi accorsi che la
lavatrice (fatta ovviamente non da me) aveva appena ucciso Chuck,
trasformandolo in una XS. Rosa.
Qualcosa
mi cadde sulla testa. Mi tastai i capelli, poi guardai in alto per
cercare di capire cosa fosse. Una crepa irregolare mi sorrideva
beffarda dal soffitto. La seconda goccia mi centrò in pieno l’occhio
destro. Mi scansai e mi misi ad osservare l’accumularsi
dell’umidità che oramai aveva ricoperto non soltanto il soffitto
ma anche gran parte della parete di sostegno. Presto avremmo dovuto
fare dei lavori. Per il momento mi accontentai di una bacinella di
plastica. Di quel passo si sarebbe riempita in un paio d’ore.
Dovevo solo ricordarmi di tornare a svuotarla.
Non
mi ricordai.
Tornai
nel bagno poco prima di cena e scivolai e caddi e mi feci male
all’osso sacro come avevo sperato di non fare mai in vita mia. Se
c’è una cosa che non sopporto è proprio il dolore fisico.
Soprattutto se sono da solo e non c’è nessuno ad aiutarmi, a
curarmi, a consolarmi. Desiderai fortissimo di averla lì, con me,
con quel suo sguardo divertito ma indulgente, le sue fossette, le sue
parole adatte.
Rimasi
in terra per una decina di minuti. Poi il dolore si attenuò e
ritrovai le forze per rialzarmi e andai in cucina con una vergognosa
voglia di chinotto. Non mi ero ancora accorto che nel lavandino e per
terra erano sparsi cocci di bicchieri, come se qualcuno li avesse
lasciati apposta affinché qualcun altro ci si ferisse. Li raccolsi a
mani nude, attento a non tagliarmi.
Mi
tagliai.
Mentre
mi mettevo il cerotto realizzai che erano quasi le otto e di lei
ancora nessuna notizia. Forse quella volta si era arrabbiata sul
serio.
Accesi
il televisore e incappai in un vecchio telefilm, uno di quelli che
avevo guardato tante volte al liceo, proprio con lei, abbracciati sul
divano, quando fingi di annoiarti un po’ per quelle storie
sdolcinate e improponibili, ma in realtà speri sempre che capiti
anche a te. Oppure quell’altro dove il protagonista guida una
macchina parlante, o quello del gruppo di reduci del Vietnam che
aiutano i poveretti.
Iniziai
a pensare di averne visti veramente troppi. Troppi per non pretendere
che poi la mia vita fosse come la vedevo nello schermo. Chissà se a
lei era mai successo? Non lo sapevo. Mi imposi di pensare a questa
cosa. Se non sapevo nemmeno come la pensava al riguardo non potevo
dire di conoscerla veramente. Alle mie spalle la porta d’ingresso,
che da tempo immemore sognava un’aggiustatina, cigolò. Finalmente
era tornata, pensai.
Pensai
male.
Percorsi
in un paio di balzi la distanza che separava il divano dallo zerbino,
dimenticandomi per un attimo del dolore alla schiena.
Tirai
con cautela la maniglia verso di me. Ero pronto a tutto.
Non
lo ero.
Sul
pianerottolo bagnato dalle sue impronte, c’era un megafono.
Attaccato
al megafono c’era un post-it. Rosa.
Sul
post-it, rosa, C’era scritto: TI ODIO.
Seguito
da ben tre punti esclamativi.
(liberamente ispirato al brano "Satelliti" di Mao)