Aspettando Godo
Parto
dalla stazione di Porta Nuova rassegnato al fatto che ci vorranno più di sei
ore per tornare a casa. Arriverò appena sarà buio e con ogni probabilità
avvolto dalla nebbia. Il panorama non aiuta: già ad Alessandria le colline
svaniscono e mi immergo nella pianura più liscia, uguale per ore.
Conosco
a memoria le stazioni e faccio partire, nella mente, il lento conto alla
rovescia dei nomi. Quando arrivo al penultimo mi sento già rilassato, come
fossi arrivato. Mi rendo conto in quel momento che non è l’ultima fermata che
attendo, ma quella immediatamente prima.
Al
momento di ripartire è quella che segna il distacco. Fino a lì mi sto ancora
ambientando, piegando la giacca, sistemando lo zaino, rispondendo ai messaggi...
Dopo quella soglia inizia il vero viaggio, mi abbandono al ronzio conciliante
del vagone e attendo, riprodotta con puntualità, la fredda voce che annuncia
l’imminente scalo.
Quando
torno è invece il limite che segna la patria, il territorio straniero. Il campo
da calcio rinsecchito accanto alla chiesa, il giuggiolo che lascia pendere i
frutti oltre lo steccato marrone, sul primo binario. Il controllore che scende
e ne ruba un paio, prima di tagliare la bruma con il fischio. Dopo quell’ultima
ripartenza mi sgranchisco, mi desto, smetto di fare quello che stavo facendo. Indosso
la giacca, raccatto le mie cose, e raggiungo gli altri passeggeri nel vano tra
le carrozze, come se in quel modo avvicinassi la meta. Barcollando in piedi, a
gambe larghe per non cadere, sento il treno rallentare, in vista del capolinea.
Sorrido, penso che presto sarò di nuovo lì. Penso che in realtà io non viaggio
aspettando Ravenna. Viaggio aspettando Godo.