giovedì 31 gennaio 2013


Invece

Te ne stai seduta lì, al margine della piazzetta, appena al di là degli ultimi tavolini, ma in vista. C'è una panca di legno che sbuca dal muretto ma tu stai seduta sul muretto, a gambe incrociate, il portatile sulle ginocchia. Ti accendi una sigaretta e getti uno sguardo alla piccola folla che chiacchiera e beve di fronte e dentro al bar. Tu li hai visti, loro ti hanno vista, ma stai in disparte per darti un tono. Forse non avevi nemmeno voglia di fumare, ma lo fai. In realtà non avevi nemmeno bisogno di aprire il portatile, ma penseranno chissà perché esce di casa per poi isolarsi dietro a uno schermo, e questo ti dà un aria di mistero e anche un po' antipatica. Ma del resto non vuoi piacere per forza. Saluti con un cenno alcune persone con le quali vorresti parlare e ridere, ma sei in un momento intimista depressivo autolesionista nel quale vuoi restare ancora per un po'. Passi svogliata il dito sulla tastiera. Ogni tanto sollevi lo sguardo per vedere se qualcuno ti guarda e per ribadire che tu là in mezzo non ci vuoi andare, che in quel luogo non sei a tuo agio. Rimani al margine, dove stanno i segreti. Hai freddo, ma indossi una maglietta scollata, dei pantaloncini molto corti e una pashmina scura. Sempre perché. Finita la sigaretta ti alzi e sgusci fino al banco, ordini una birra piccola e saluti il barista con un cenno del capo, poi riprendi il tuo posto, fissando le crepe sul ciottolato avorio. Un ragazzo si avvicina e ti saluta, rovinando il quadretto che avevi impiegato una buona mezz'ora a creare. Lo tratti quasi male e lui se ne va presto, lasciandoti di nuovo sola. Finisci la birra, riprendi il computer e te ne vai dal vicoletto, anche se in realtà così allunghi il giro, ma attraversare la piazzetta proprio non è da te.

giovedì 24 gennaio 2013

Contro-storia

In realtà non c'è mai stata nessuna guerra. Non sei mai partito ventiduenne dal tuo paese per andare a combattere al fronte. Non hai viaggiato stipato in un treno assieme a degli sconosciuti, non hai mai avuto sete e fame, non hai avuto freddo. Non hai sparato invano contro un nemico senza volto, non sei stato preso prigioniero. Non hai mangiato bucce di patate, non hai rosicchiato ossa rancide. Non hai tenuto un diario su dei fogli rubati e segnati con un lapis di carbone, non hai cercato la luce del giorno tra le assi umide della parete. Non hai pianto, non hai scavato, non hai visto morire i tuoi compagni. Non ti sei consumato, non hai perso la speranza. Non hai atteso in vano. In realtà non sei morto. In realtà non sei mai nato.

giovedì 17 gennaio 2013


No golf

Abitavo al n.87 di Craiglockhart Terrace, nella periferia ovest di Edimburgo. Vivevo con due ragazze australiane, una coppia spagnola, un'altra ragazza spagnola, un quarantenne scozzese quasi alcolista e un ragazzo pallidissimo e sempre vestito di nero, del quale non seppi mai nulla e che tutti chiamavamo “Il fantasma”. All'inizio non avevo ancora molta confidenza e siccome ero nettamente l'inquilino più giovane, me ne stavo spesso da solo e mi inventavo cose da fare.
Lungo la strada per tornare a casa con il bus diretto a Torphin passavo sempre accanto ai Brunsfield Links, un piccolo prato nel cuore della città con 18 brevi buche da golf. Al limitare del campo c'era una casetta di legno dipinta di rosso scuro con appese le regole del campo e una piccola mappa delle buche. Ognuno poteva giocare liberamente, purché rispettasse le regole e ovviamente si portasse le proprie mazze e le proprie palline.
Dopo circa due settimane che ero lì, dato che faceva bel tempo, decisi di entrare in un charity shop a caso, e per tre pounds comprai due mazze, un ferro medio e un putter, e due palline.
Andai al campo da golf ed iniziai a tirare le palline. Non avendo mai giocato ero molto scarso, però mi divertivo abbastanza. Alla quinta buca iniziò a piovere di brutto e fui costretto a interrompere la mia prima solitaria di golf. Forse era un segno, forse mi si stava dicendo che non ero ancora pronto per il gioco, nemmeno per i Links.
Nei giorni seguenti decisi quindi di allenarmi e siccome proprio di fronte a casa c'era un'enorme prato ben curato, mi misi a tirare palline, per ore ed ore. Passai così alcuni pomeriggi fino a quando non mi sentii pronto per tornare ai Links.
Ad un tratto, quando avevo deciso di fare gli ultimi tiri (oramai riuscivo a lanciare con precisione oltre i trenta metri) vedo un ragazzo ben piazzato tutto vestito di bianco, con i guantini e la coppola che mi corre incontro dall'altra parte del prato, saranno stati trecento metri, agitando le braccia e urlando qualcosa. Io non capisco e piazzo un altro lancio. Vado a recuperare la pallina e quando torno indietro l'uomo mi ha quasi raggiunto. Ora capisco cosa mi sta urlando: “No golf! No golf!”. Quando vede che ho finalmente sentito si ferma e mi guarda, ma è ancora a un centinaio di metri. Io che non capisco perché non posso lanciare gli urlo “Tell me why?!” e lui, con grandissimo garbo mi urla “It's a cricket pitch!”
Con riluttanza alzo una mano, in segno di scusa, raccolgo le mie palline, recupero anche l'altra mazza e torno verso casa.
Ero contrariato. Per quasi una settimana mi ero allenato e nessuno si era mai presentato a giocare a cricket. Ero sempre rimasto nel bordo del campo, vicino alle case, e da lì nemmeno si vedevano le linee bianche dei campi da quanto ero lontano.
Più tardi scoprii che stavo lentamente dissodando i Craiglockhart pitches, i campi di riserva del Watsonians Cricket Club, che si trovava dall'altra parte della ferrovia. Quella sera riposi le mazze, deciso a trovare un altro prato nel quale allenarmi.
Il mattino seguente vicino alle case dove di solito mi esercitavo campeggiava un cartello con scritto “No golf”.
Vi passai oltre, sbirciando dentro le finestre per vedere se qualcuno mi stesse osservando, se qualcuno mi avesse riconosciuto. Quel cartello era lì per colpa mia.
Non ripresi più in mano le mazze. Non tornai mai più ai Brunsfield Links. Ma ogni giorno li vedevo scorrere accanto al bus n. 10 e ogni giorno mi ricordavo della piantina del parco che avevo piegato e riposto nel cassetto della scrivania. E credo che sia ancora lì.

giovedì 10 gennaio 2013


Arturo Provvisorio

Ciao come ti chiami?”
Arturo. Provvisorio...”
Capisco. Io Marcella, definitivo.”
Beata te...”

Arturo una volta si chiamava Deserto, perché è li che era nato. Anche suo padre si chiamava Deserto, mentre sua madre si chiamava Oasi. La legge del sultano prevedeva che ognuno avesse il nome del luogo in cui era venuto al mondo. Quando il sultano morì senza eredi e fu possibile cambiare nome, molti non lo fecero, abituati ormai com'erano al proprio, ma Arturo sì.
Dapprima decise di chiamarsi Oasi, poi Savana, poi Foresta. Non contento di avere nomi che anche altri che conosceva avevano, scelse quindi parole di luoghi che aveva visto ma che non esistevano dove viva lui. Pensò a Montagna, poi Mare, poi Neve, poi Città. Stanco dei nomi di luogo si chiese se nessuno fosse mai nato in cielo, ma pensando agli uccelli decise che fosse possibile e allora si chiamò Cielo. Che comunque era un luogo, in qualche modo, e Arturo voleva di più. Passò da Sasso, poi Sedia, Triangolo, Felicità, Ipotesi, ma anche questi nomi riconducevano sempre a qualcosa. Dopo molti mesi e molti nomi Arturo ebbe l'idea di inventarsi un nome, e fu Gnarz. Ma non gli piaceva il suono. Pensò ad altri nomi ma si accorse che scartava tutti quelli che suonavano male e teneva solo quelli belli da pronunciare e anche questo non gli piaceva. Prese così delle lettere a caso e venne fuori Nxnmausdhjc, che però era impronunciabile. Poi finalmente Arturo trovò un nome che gli piaceva ma un imperatore prese il potere e decise che i nomi sarebbe stati assegnati dal suo governo. Il nome affibbiato tuttavia avrebbe avuto un periodo di prova, durante il quale ognuno poteva abituarsi e vedere come gli stava. Dopodiché sarebbe stato possibile fare al massimo due richieste di cambiamento. Arturo era al primo nome, ma ancora non era sicuro che gli piacesse.

E come vorresti chiamarti?” gli chiese Marcella.
Arturo ci pensò un po', ma il realtà conosceva da tempo la risposta.
Deserto.” disse.

giovedì 3 gennaio 2013


Piedi

Jasper Helbow aveva finito di disegnare "Jennar" il protagonista del nuovo cartone animato della Xartax. L'unico problema era che aveva i piedi. Era perfetto: simpatico, accattivante, vestiti perfetti, colori perfetti. Ma non indossava le scarpe. Il che era del tutto concepibile trattandosi di un energumeno quasi primitivo in lotta contro gli orchi della foresta.  Ma la casa di produzione non era intenzionata a spendere tutti quei soldi per avere schiere di disegnatori che "perdessero tempo" sui piedi. Scontornarli, muovere le dita una ad una, ombreggiare l'incarnato. Decisamente troppo tempo e troppo denaro. Meglio le scarpe. Assurde ma molto più economiche. Jasper Helbow si rifiutò di modificare la sua creatura e lasciò l'incarico per il quale aveva già un contratto da due milioni di dollari. E solo per la storia delle scarpe. La Xartax fece comunque il cartone, ma non ebbe il successo sperato.
Helbow decise di farne una sua versione ma non aveva abbastanza soldi. Vendette la casa e tutto quello che poteva vendere. Dopo un paio d'anni di lavoro si ammalò gravemente e morì nel giro di pochi mesi. Suo figlio proseguì l'opera e riuscì a completare il lungometraggio in tre anni grazie alla donazione di una fondazione anonima. Quando venne ultimato, all'inizio degli anni duemila, era già obsoleto, superato in tecnologia dalla computer animation che oramai spadroneggiava da tempo. Ma "Jennar del bosco" ora esiste ed ha i piedi. Ed è un gran bel film.