giovedì 31 maggio 2012

Intervista a Darth Vader (e R2D2)
scritta con Roby Rani

Tratto da "Ehi, tu?! Ravénnati" n.01

Salve Signor Vader, posso chiamarla Darth?
No.

Ma i suoi amici come la chiamano?
Lord Vader. E poi non ho amici.

Cosa fa in Romagna?
Non so di preciso. La conquisterò, credo.

È qui per conquistarci?
O distruggervi, devo ancora decidere.

E con quale esercito, mi scusi?
Non c'è bisogno di nessun esercito. È sufficiente la Forza.

Niente spada laser?
È scarica... Fa solo rumore ma non si illumina più. Maledette batterie al litio...

Mentre la ricarica ci dica: conosce per caso la nostra associazione?
Siete Ribelli? Maledetta feccia ribelle!

No, è un'associazione culturale. Ci occupiamo di teatro, comicità, spettacoli, cose così.
E come vi chiamate?

Zero Cinque Quarto Atto
Sembra il nome di un Droide Protocollare.

Senta ma lei ha mai visto uno spettacolo di improvvisazione teatrale?
Sì, una volta ho visto un Imprò. Ravenna contro Padova.

E chi vinse?
Io.

Capisco... E si è divertito?
Purtroppo sì. Come hai detto che vi chiamate? Zero Cinque Forza Quattro?

No è...
Mi stai per contraddire?

No in effetti suona meglio cambiamo subito.
Abbiamo ancora poco tempo. Posso chiederle se verrà alla Maratona di Improvvisazione teatrale il 23 giugno?
Una Maratona? Notevole…..veramente Notevole, sento con l’imperatore se posso prendere ferie.

Allora possiamo segnarla tra gli ospiti, mettere la sua foto nei manifesti?
No, vengo male nelle foto. Sempre la stessa espressione.

Già... Direi che non ho più domande. Vuole aggiungere qualcosa?
Certo, Luke.

Non sono Luke.
Sono tuo padre.

Ma non sono Luke!
Mi stai per contraddire?

No….papà
Mi hai deluso per l'ultima volta ammiraglio!

non sono un ammiraglio…Papà!
Trovo insopportabile la tua mancanza di fede.

Grazie, arrivederci.
Abbiamo già finito?

Sì, dobbiamo intervistare R2D2.
Capisco...

Signor R2D2 lei ha mai visto uno spettacolo di improvvisazione teatrale?
Bip bip, sding, prrr, da-daa, pli du wi.

Ahaha! Ma che storia!

lunedì 28 maggio 2012

giovedì 24 maggio 2012

Il discorso di Benigni
(tratto da Ravenna, finalmente!, Fernandel, 2011)

[...]
Quando il calderone assordante si placò, Benigni prese il microfono e si sporse verso la folla, a pochi centimetri dal bordo del palco.
«Vi chiedo scusa per l’attesa» disse. L’accento aretino, inconfondibile, era solo leggermente impastato dagli anni. Le “c” aspirate e le “s” ruvide risuonavano musicali dagli altoparlanti. «Ma volevo salire lassopra per gustarmi lo spettacolo. Mi volevano fa’ stare in camerino fino all’ultimo, ma nun ci so’ riusciti!». Un applauso fragoroso e risate copiose scoppiarono tra la folla.
«Mi spiace se vi ho fatto un po’ dannare ma proprio ‘un resistevo. Sicché son salito sui merli e vi ho guardato dall’alto. Mammina come eravate belli! Cioè anche da quaggiù non siete niente male ma da lassù si percepiva proprio un respiro unico, come una creatura fatta di mille occhi e mille braccia... Ora, noi si è qui, stasera, per parlare di un po’ di cosucce, cose grandi ma anche cose piccine, che insomma ci riguardano. Be’, vi devo dire però che tutte queste cose scritte e dette non potrebbero descrivere quello che provavo io quand’ero lassopra a guardarvi. Ma una gioia, una felicità, ero proprio tutto pervaso da questa contentezza di vedere tante persone assieme festeggiare e dare inizio a qualcosa di meraviglioso. Guardate, sono ancora qui con la pelle d’oca… Be’, ora basta però sennò si fa gli sdolcinati e si sviolina che poi sembra che la Sindaca ci abbia pagato per parlar bene di Ravenna.»
Il pubblico rise e tornò ad applaudire mentre Benigni si asciugava la fronte con un fazzoletto tricolore. «Grazie, grazie... Bene, ora, proprio così pe' cominciare, vorrei parlarvi di un signore, un signore inglese che visitò questa città alcuni secoli or sono. Questo signore, che si chiamava Oscar, come Oscar Wilde, e infatti era lui, aveva viaggiato un po’ per l’Italia, e ne aveva viste di cose maestose e incredibili, poi risalì fino a Ravenna. Arrivò a cavallo, una sera d’estate verso il tramonto, un po’ come s’è fatto noi ier sera. Bene, quando arrivò fu talmente emozionato che, lì per lì non riuscì a scrivere nulla, ma quando tornò in patria, circa un anno più tardi, compose una lunga poesia, con la quale vinse anche un premio… Ci mise un anno per farla anche perché, sapete, quando le emozioni sono troppo forti non è un bene mettersi a scrivere. Bisogna farle sedimentare, lasciarle stare per un po’, e poi quando ce le si è quasi dimenticate, bisogna lasciarle uscire tutte d’un botto e dirle a tutti! Ecco, Oscar Wilde le ha fatte uscire è ha scritto una poesia, che fa più o meno così: sento la nostalgia del passato... No scherzo, scherzo! Siamo seri... oh, noi la si è tradotta dall'inglese, però fa più o meno così: Un anno fa respiravo l’aria italiana... Poi dice altre cose e poco dopo continua dicendo: Oh, come il mio cuore arse di fanciullesca passione / Quando lontano oltre falaschi e stagno / Vidi quella Città Santa ergersi netta / Coronata della sua corona di torri! Avanti e avanti / Galoppai, in gara contro il sole calante / E prima che l’ultimo bagliore vermiglio fosse trascorso / fui entro le mura di Ravenna finalmente!»
La folla applaudì composta e brevemente. Benigni riprese a parlare sugli ultimi batter di mani.
«Ravenna capitale europea della cultura» disse, calcando minuziosamente ogni parola. «Ci avreste mai creduto? Eh? La signora qui in prima fila fa no con la testa. E, vi dico un segreto, basta che non lo diciate in giro, tanto qui siamo tra pochi amici, si fa pe’ scherzare. Ma vi devo dire, che anche la Sindaca, me l’ha detto proprio ieri sera quando so’ arrivato, che ‘un ci credeva nemmeno lei! Dice… Sindaco, oh, si fa pe’ scherzare! Dice, mi ha detto: ci avessi dovuto scommettere sei o sette anni fa avrei detto mai al mondo! E mica me l’ha detto solo lei! Ora, io sono venuto a Ravenna per girare un filmetto quasi trent'anni fa, la signora qui davanti fa con la testa, si ricorda… Ed era un po’ che non ci tornavo. Ma devo dire che, insomma, è sempre uno splendore! Ravenna è stata tre volte capitale, non capita mica a tutte le città! Ad esempio Castiglion Fiorentino, da dove vengo io, non è mai stata capitale di niente…Eh! Qua invece, imperatori, re, esarchi, vi hanno dedicato delle parole stupende non solo Dante ma anche Byron, Oscar Widle lo abbiamo detto, D’Annunzio, Montale, insomma! Questo pe’ dire che in passato qualcuno ci ha creduto, è rimasto colpito e affascinato da Ravenna… Perciò ora tocca affascinarsi di nuovo, crederci di nuovo. Non si vorrà mica deludere l’Europa! Che poi non ci danno più i fondi pe’ salvare il Governo, e l’è un casino…Signora lei adesso ci crede? Fa così così con la mano… E voi ci credete? Ci credete o no?»
Un urlo salì dalla folla che fino a quel momento aveva ascoltato, in religioso silenzio.
«E voi? Ci credete o no...?»

lunedì 21 maggio 2012

giovedì 17 maggio 2012


Nobumoto e il ventaglio


Nobumoto Kasuramigawa sedeva, assorto, nel Patio delle Allodole, assaporando il tepore del sole pomeridiano. Il solletico delle venature del legno sotto i piedi nudi gli risultava piacevole ed era la sensazione tangibile dei rari momenti di riposo che poteva concedersi lontano dal palazzo. Quando rimaneva per ore negli alloggi della corte a colloquiare con i dignitari o a redigere missive, ogni tanto si distraeva, cercando di ricordare quella sensazione sotto i piedi. Senza accorgersene li muoveva leggermente, facendoli scivolare sui geta di legno di kiri, ma le calzature gli impedivano di percepirne la superficie leggermente ruvida. Non sopportava di indossare i tabi in estate, ma l’Imperatore non tollerava i piedi scoperti, nemmeno per gli uomini.
Ad un tratto la quiete del parco venne interrotta da rapidi passi sul sentiero di ghiaia.
Senza scomporsi, Nobumoto aprì gli occhi e voltò adagio il capo alla propria destra. Un ragazzo, che egli conosceva bene, si stava avvicinando a lui, visibilmente timoroso ma eccitato.
«Perdonate, Nobumoto-sama.» disse il ragazzo, esibendo un sentito inchino, più ampio del necessario.
«Ti sei già perdonato da solo, interrompendo il mio ozio.» disse Nobumoto.
Il ragazzo alzò il capo, mortificato. Ma l’uomo gli stava sorridendo.
«Dimmi, cosa ti turba, kotaishi?» gli chiese.
«Ho un certo imbarazzo a rivelarvelo, Nobu-sama.»
«Ha a che fare con una fanciulla?»
«Come lo avete capito?»
«Da giorni ti vedo irrequieto e alla tua età un simile stato d'animo può essere dovuto a poche cose.»
«Avete ragione, Nobu-sama...»
«Tuttavia» disse il dignitario, interrompendo il ragazzo «Sei ancora troppo giovane per arrovellarti in certe questioni. Quando avrai compiuto il tuo gempukku potrai dedicarti alle faccende degli adulti.»
Il ragazzo rimase per qualche istante in silenzio, inibito ma deciso a non darsi per vinto.
«Ma l'amore non può essere solo per gli adulti.» disse infine.
«Vero, ma devi imparare a comprenderlo, kotaishi.»
Il ragazzo si fece nuovamente taciturno, intento a riordinare i pensieri.
«Ad ogni modo io provo simpatia per una persona e vorrei farglielo sapere.»
«Allora diglielo.»
«Ma ne ho timore.»
«Dunque scrivile.»
Il ragazzo parve illuminato.
«Comporrò un tanka!» esclamò.
«Mi sembra appropriato. E glielo reciterai?»
«Oh, certo che no... Glielo farò recapitare.»
«Non mi pare che così facendo tu possa dimostrare in giusta misura l'affetto che dici di provare.»
«Cosa mi suggerite dunque, Nobu-sama?»
«Quanto meno di trovare un modo insolito per farglielo avere.»
Il ragazzo si rimise a pensare, fissando gli alberi alle spalle di Nobumoto.
«Potrei scriverlo su un pezzo di carta e nasconderlo in uno dei suoi ventagli. Anzi, lo scriverò direttamente su un ventaglio e glielo regalerò!»
«Non state considerando una cosa. Un ventaglio non è sufficiente a contenere tutte le sillabe di un tanka. Ad esempio, il ventaglio che indossate ora quante pieghe ha?»
Il ragazzo estrasse il ventaglio dalla cintura e lo spalancò, iniziando a contare le stecche.
«Diciassette.» disse.
«Allora dovrai scrivere un componimento di diciassette sillabe.» disse Nobumoto.
«Non esiste nulla del genere, sama.»
«Allora lo inventerai per l'occasione. E se ti riuscirà dovrai anche dargli un nome.»
«Diciassette sillabe.. Un numero assai esiguo per esprimere ciò che sento.» osservò il ragazzo.
«La via del samurai sta nella brevità.»
A quelle parole il ragazzo si inchinò.
«Grazie per i vostri consigli, Nobu-sama. Ora devo rientrare a palazzo. Mio padre mi starà cercando.»
«Non devi ringraziarmi, kotaishi. Io sono vostro umile servitore.»
Il ragazzo fece un altro inchino e si voltò, per allontanarsi.
«Soddifsa una mia ultima curiosità.» disse Nobumoto.
Il ragazzo interruppe il movimento e si rivolse nuovamente al dignitario.
«Ditemi, Nobu-sama.»
«Qual è il suo nome?»
«Haiku.» rispose il ragazzo.

lunedì 14 maggio 2012


Bietole


Tocca a te. Ti alzi dalle due assi di legno inchiodate ai piedi arrugginiti e ti scrolli di dosso un finto riposo di mezz'ora. Ti godi ancora per poco il ronzio ovattato, guardi fuori dal vetro lercio per capire quanto manca all'alba.
Indossi il giaccone, ti rimetti i guanti bagnati e il casco e ti avventi sulla maniglia scassata che cigola e spalanca la porta verso l'umido e il rumore. Il tuo socio ti percepisce muoverti nella penombra arancione e si prepara a lasciarti il posto. Tu gli dai una pacca sulla spalla mentre lui ti scivola accanto, per andare a far finta di riposarsi sulle assi che gli hai tenuto in caldo.
Con un paio di occhiate ti rendi conto della situazione. Il mucchio di bietole di sinistra è quasi finito, a breve attaccherai quello di destra. Lo staker a ore otto presto riempirà l'ultima piazzola e ricomincerà il giro. Bisogna fare in fretta.
Il semaforo verde smeraldo brucia la nebbia sottile e non lascia tregua. Ugelli aperti al massimo, spingarda elettrica e manuale in funzione. La prima attacca la gigantesca montagna di tuberi dal basso, sparando acqua scura sul cemento e creando un turbine arcuato che lentamente erode la base, trascinando con sé ogni cosa verso la canaletta centrale. La seconda lavora di fino, andando a colpire le biete un po' più vicino, per sbloccare la terra e aumentare la spinta dell'acqua.
Con piccole correzioni dei pulsanti e del manubrio in meno di un'ora svuoti anche questa piazzola. Il tuo compare non ti ha dato il cambio perché ora lavorate entrambi. Produzione al massimo, addio turni. In piedi svegli fino all'alba.
Quando il getto non ci arriva più chiudi tutto, ti imbraghi e fai un cenno al tuo socio. Entri nella piazzola, stivali e badile, e vai a prendere le ultime biete incollate negli angoli. La vanga scivola sul cemento umido, in parte scorticato, come la pala di un pizzaiolo. Appena le tocchi saltano via e la pendenza le trascina sino alla buca, quasi in fila. Sembrano sassi lanciati sul ghiaccio da un giocatore di curling.
Ce ne sono alcune in fondo, potresti lasciarle anche lì, tanto tra poco ne arriveranno altre, ma ti piacciono i lavori precisi. Allunghi il badile e le catturi come ratti giganti; con un calcio dosato le mandi a far sponda contro il muretto e roteando cadono nella canaletta, per pochi centimetri. Pennellata.
Esci dalla piazzola, appendi l'imbragatura, apri le spingarde per un'ultima lucidata. Richiudi tutto, la piazzola è come nuova. Fai cenno allo stakerista che può iniziare a ributtarle lì dentro.
E mentre ti sposti verso la successiva montagna senti il rullio crescere e avvicinarsi. Con il tempo ci fai l'abitudine; con il tempo diventa quasi rassicurante.


giovedì 10 maggio 2012


Le conseguenze delle more (seconda parte)


(...continua)

Senti” gli risponde, facendo un passo verso di lui “Ho capito come fai tu, sai.” Il Morgus rimane di sasso. “So che potevi prendermi e mangiarmi l’altra volta, ma non l’hai voluto fare. Ora, io penso che tu sei buono, anche se mi hai quasi tolto un dito. L’ho visto che eri dispiaciuto per quello che avevi fatto.”
A questo punto il Morgus deve almeno tentare di difendere il suo onore. Lui buono?! Speriamo che non ci siano leprecauni nelle vicinanze, pensa, sennò sai che figura!
Io non sono buono ragazzino! Se non ti ho pappato per cena è solo perché ho già tanti di quei mocciosi da mangiare che non so che farmene di te!”
Ma se sono mesi che non prendi più nessuno!” dice il ragazzino. “Guarda che lo so che non te la passi bene.”
E a te cosa importa?” gli dice il Morgus.
In realtà nulla, anzi, sono contento.”
E allora perché sei qui? Cosa vuoi da me?”
Beh, vedi, un motivo ci sarebbe…”
Avanti, non farmi perdere la pazienza che sennò poi è la volta che ti mangio davvero!”
Ecco, vedi, la settimana prossima c’è una gara di torte in città. È una cosa molto importante. Al vincitore andrà un sacco pieno di monete d’oro. La mamma ed io abbiamo lavorato tanto per questa gara, però ci manca ancora qualcosa.”
Che cosa?” chiede il Morgus.
La mia mamma fa la migliore crostata di more delle Sette Valli. Però questa volta deve fare qualcosa di veramente speciale se vogliamo avere qualche possibilità di vincere. Ecco, io sono qui per chiederti di poter prendere un po’ delle more che sono dalla tua parte. Sono certamente le più grosse e le più succose che io abbia mai visto. Mia madre mi picchierebbe se sapesse che sono tornato qui, ma io ho pensato che forse potevo convincerti ad aiutarmi.”
E dimmi, perché mai dovrei aiutarti?” chiede allora il Morgus.
Il ragazzino risponde prontamente, come se si aspettasse quella domanda.
A te non piace la carne umana, vero?” dice “No sai, perché ho visto che l’altro giorno dopo che mi hai morso hai sputato tutto e hai fatto una faccia davvero schifata.”
Il Morgus prova un po’ di vergogna. Quel ragazzino è proprio sveglio. Deve stare attento, ci vuole prudenza.
In effetti è così…”
Immaginavo. E allora mi sono chiesto: se il Morgus, che è famoso per mangiare, i bambini in realtà non li mangia, di cosa si nutre?”
Speriamo davvero che in giro non ci siano fatine o coccinelle pettegole, pensa il Morgus.
Criceti, cavallette, serpenti, dipende da quello che trovo…”
Mmm, capisco. Immagino non debba essere un gran ché.”
In effetti no, ma sempre meglio di voi umani.”
Beh, vedi, io potrei risolvere questo tuo problema.”
E come?”
Beh, potrei portarti un po’ delle cose buone che prepara la mia mamma, così non dovresti più cacciare quei poveri animaletti.”
Il Morgus è estremamente indeciso. La proposta sembra allettante, ma di sicuro c’è qualcosa sotto. E poi come spiegarlo a sua madre? Come dirle che è sceso a patti con gli umani, gli stessi che gli hanno ucciso il padre?
Chi mi dice che manterrai la promessa?” chiede allora al bambino. “E cosa dirai a tua madre?” A giudicare dalla sua espressione era chiaro che a questo il ragazzino non aveva pensato. “Le madri non ci cascano facilmente, sai.” Prosegue il Morgus.
Anche tu hai una madre?” chiede il ragazzino.
Sì, ce l’ho. E neanche lei vorrebbe fossi qui a parlare con te.”
Il ragazzino ci pensa un po’ su poi dice: “Beh, potremmo farle incontrare allora, così tutto si potrebbe chiarire.”
Ma sei matto? Io sono il Morgus! Non è possibile, insomma... Non è possibile!”
Perché? In fondo le nostre mamme hanno le stesse paure. Se si parlassero sarebbero più tranquille e tutti e due risolveremmo i nostri problemi. Io avrei le mie more e tu i tuoi manicaretti.”
Ma non si è mai vista una cosa del genere! E poi mia madre odia gli esseri umani. Cioè, le piacciono molto, ma solo da mangiare. Credimi, è una cosa senza senso!”
Io dico invece che dovremmo provare. Facciamo così: io ora devo andare, al villaggio si staranno chiedendo che fine ho fatto. Domattina verrò qua con mia mamma. Tu porta la tua e vedrai che tutto si sistemerà.” E così dicendo il ragazzino scappa via, mentre il Morgus rimane a bocca aperta, al limitare della zona d’ombra. Non si capacita di come possa essere finito in un pasticcio simile. Si dice di lasciar perdere, che potrebbe essere una trappola. Degli umani non ci si può fidare.
Poi il pensiero di un'altra manciata di scarafaggi nello stomaco risveglia in lui un flebile desiderio di cambiamento.

È oramai il tramonto quando il Morgus fa ritorno alla sua tana. Sulla soglia della caverna ha il cuore in subbuglio; non sa come spiegare alla madre il suo strampalato progetto. Ma si fa coraggio e le si avvicina, dicendo: “Mamma, ho da dirti una cosa…”
La madre del Morgus si volta, appare furiosa. Puntandolo con gli artigli dice: “So già tutto. Il bosco ha occhi e orecchie! Perciò stammi bene a sentire, perché sono io che devo dirti una cosa.”
Il Morgus non osa fiatare. La madre lo fissa con gli occhi iniettati di giallo mentre le sue zanne sfregano contro il palato. Non riesce più a trattenersi, la cosa le pesa troppo.
Vedi, figliolo...” la sua voce si attenua, il muso si rilassa “Neanche a me piacciono i bambini.”

lunedì 7 maggio 2012


Le conseguenze delle more (prima parte)

Il sentiero che da Buonconvento porta a Montenero è prima tutto in discesa e poi tutto in salita. A metà, proprio dove cambia la pendenza, si trova il Leccio del Morto, che si chiama così perché una volta ci hanno impiccato un brigante.
Ai bambini del paese è vietato superare quell’albero, perché sanno che al di là si trova il Morgus, che se ti prende non torni a casa mai più. Ma, come sempre accade, i ragazzini non perdono occasione per trasgredire le leggi dei grandi. Spesso infatti si recano al Leccio del Morto e fanno a gara a chi riesce a cogliere le enormi more che vi crescono poco oltre.
Il Morgus lo sa bene e ogni giorno si alza di buon’ora e si incammina giù per la collina nella speranza che qualche mocciosetto sia in vena di spavalderie. E anche quella mattina, come tutte le altre, mentre l’alba ancora tarda a farsi annunciare, il Morgus esce dal suo rifugio, viscido e spettrale.
Poco prima di imboccare il sentiero tra gli abeti oramai spogli viene raggiunto da una vociaccia stridula che gli urla: “Ti sei ricordato di prendere due topi per la merenda?!”
Il Morgus odia quando sua madre fa così.
Sì, mamma… li ho presi...”
Almeno evitasse di farlo ad alta voce, che poi tutti i troll e gli gnomi del bosco lo prendono in giro e pensano che sia uno stupido. Ma lui non è uno stupido, tutt’altro! È che è molto difficile catturare quei piccoli bastardi. Il fatto è che, beh, a lui i bambini non sono mai piaciuti! Quando suo padre glieli faceva mangiare per forza, da piccolo, lui faceva una gran fatica. Doveva mangiarci dietro una mezza vipera arrosto e almeno una dozzina di pigne secche per riuscire a mandarli giù. E ora che suo padre è morto, ucciso dai cacciatori del villaggio, tocca a lui fare da Morgus e andare tutti i giorni a caccia di bambini. Di fatto però non ne ha mai preso nessuno. Anche quando avrebbe avuto l’occasione, si è sempre limitato a spaventarli o tutt’al più a graffiarli. Non è per pietà o mancanza di cattiveria che non li cattura. È che proprio non tollera il loro sapore! Questo certo alla madre non può dirlo, e ogni volta inventa scuse e torna a casa con un mazzo di topi o magari di gatti screziati. E ogni volta la madre lo rimprovera duramente e lo rispedisce al suo dovere.
Pertanto anche quel giorno è costretto a scendere a valle, alla ricerca di un pasto da rimediare.
Giunto nei pressi del Leccio, vede un ragazzino dai capelli rossi che sta fermo a braccia conserte e scruta il bosco davanti a sé. Ma quello è il bamboccio al quale ho quasi staccato un dito l’altro giorno, pensa il Morgus. Allora gli si avvicina, nascosto tra i cespugli, per cercare di spaventarlo e farlo scappare. D’un tratto balza fuori e gli grida: “Che ci fai qui, moccioso?! Vuoi che ti mangi tutta la mano questa volta?!” Il ragazzino però appare per nulla scosso. Anzi, sembra addirittura annoiato.


(continua...)

giovedì 3 maggio 2012


Muretto

F. era seduto sul muretto e da circa una mezz’ora tormentava B., ripetendogli continuamente: “Dai, dammi un pugno in faccia, dammi un pugno in faccia!”. La piazza si stava svuotando dopo il concerto e la collinetta era ricoperta di bottiglie mezze vuote e pacchetti di sigarette accartocciati. Ci stavamo godendo la serata tiepida di metà maggio, convinti che sarebbe finita come al solito, con qualche birra di troppo e un’ultima passeggiata sotto i portici.
Poi ci fu uno schiocco agghiacciante e vidi F. con la testa china che sputava sangue. Per un attimo non capii bene cosa stesse accadendo. Nessuno si mosse. F. scese dal muretto, e andò incontro a B. con il labbro proteso in una posa innaturale. Si fermò a un passo da lui, la faccia piantata sulla sua. Poi lo abbracciò ed iniziò a ripetere, quasi piangendo: “Grazie, grazie!”. B. era allibito e dispiaciuto e imbarazzato allo stesso tempo. Scostò F. e si mise a implorarlo: “Adesso dammelo tu!”. La cosa andò avanti per qualche minuto finché lo zigomo destro di B. ricevette il suo compenso. I due si abbracciarono di nuovo, sporcandosi a vicenda le maglie di sangue fresco.
S. è cintura nera di judo. A casa spesso si diverte a lottare con M., che di judo non ne ha un’idea. Buttano i cuscini del divano per tutta la sala e poi ci si rotolano sopra. S. sa come prenderti e farti cadere senza che nessuno dei due si faccia male, perciò il gioco può andare avanti senza problemi anche per ore. Ma qui non ci sono i cuscini ed entrambi hanno bevuto parecchio. Il risultato è che al terzo assalto S. afferra M. ai fianchi e inizia a girare con lui, sempre più velocemente, fino a quando perde la presa e M. vola senza controllo e di faccia contro il cemento. Il suo atterraggio è quasi parallelo al suolo, così che il volto gli si scortica completamente e il naso si frattura in due punti. Si alza, e dice: “Mi brucia un po’ la fronte...”. Si tira indietro i lunghi capelli rasta. Tiene gli occhi aperti a fatica. Il sangue inizia a colare da decine di piccole escoriazioni come se fosse passato in mezzo ad una grata.
Nel giro di pochi secondi scatta il Fight Club. P. getta via una lattina di birra scadente e si avventa su S., minacciandolo, ma non sul serio, per quello che ha fatto a M. Gli salta in groppa, lo stringe al collo e in pochi istanti cadono entrambi di schiena. P. resta schiacciato, prende una gomitata sullo sterno e gli manca il fiato per un po’. Ma si rialza e si mette a spintonare chiunque gli passi a tiro. Nel mentre B., che non ha ancora esaurito la scarica di adrenalina di poco prima, si unisce alla mischia al fianco di P. e improvvisa placcaggi da wrestler, andando a picchiare la faccia contro le ginocchia di chi cerca di sfuggirgli. Arrivano G., N., T., e un’altra mezza dozzina di ragazzi che non conosco, forse anche I. Mentre vedo Alice ed Elisa farsi da parte e fissare incredule la scena, realizzo di essere al centro del ring, esterrefatto ma in un certo senso divertito, assolutamente incapace di fare qualcosa.
Per fortuna che G. ha la macchina e riescono a portare M. e F. in ospedale. Intanto alcuni si allontanano alla spicciolata e io cerco di tornare a casa con N. Lui però vuole correre, anche se non è in grado e io cerco di trattenerlo. All'ennesimo tentativo di divincolarsi però mi sfugge e scivola, andando a sbattere contro una vetrina sporgente in metallo, infrangendone il vetro. La botta sembra seria.
Arrivati a casa si alza la maglia ed emerge un livido grande come una mano e viola come una bietola cotta, e più o meno della stessa consistenza. Nel mentre arrivano a casa anche B. e I., messi malino. I. passa una vita in bagno finché non ci si addormenta e lo devo andare a prendere. Con B. cerchiamo di ricostruire gli avvenimenti delle ultime ore. Ci scappano due risate, poi andiamo a dormire anche noi.

Questa storia l'avrò raccontata cento volte, ma era ora che venisse scritta.
Grazie regaz, da P.