giovedì 27 giugno 2013

Quattro Haiku

No cocomero
solo compiti.
Brucia lo zampirone.

Fungo spaccato
lungo il sentiero.
E' ora di tornare.

Calzoni corti.
Ginocchia nella neve
camino vivo.

Grano sgarbato
attendi con affanno.
Piove, ma poco.

giovedì 20 giugno 2013

Ercolino

Dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi dormi...   

Dorme?

No

Dormi dormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormidormi dormi dormi dormi dormi...

giovedì 13 giugno 2013

Il fotografante

Sono un fotografo. O meglio lo ero. Ero un fotografante.
Mi è sempre piaciuta la fotografia, fin da quando c'erano i rullini. E allora da grande ho pensato di farne una professione. Andare ai grandi eventi politici, immortalare le star, mettermi la casacca arancione con scritto Press alle Olimpiadi. No, il reportage o gli scatti d'autore non sono mai stati il mio forte. Mi piaceva lavorare per la stampa, non tanto per conto mio. Quando sono in giro da solo o con la mia famiglia faccio qualche foto ma non impazzisco, non vado in Karzighistan o sui monti della Sencillas per trovare lo scatto da Pulitzer.
Dopo una decina d'anni però ho smesso. Ho smesso perché non riuscivo ad essere il migliore. Perché sì, ci sono i migliori anche nella fotografia da stampa, sportiva o di cronaca, anche lì si riconosce chi ha talento e chi no. E anche oggi che con le macchine digitali si possono fare centinaia di scatti e poi scegliere e fare mille ritocchi in post, nel giro si sa chi è davvero una spanna sopra. E io non lo ero. Ma se non avessi incontrato il migliore mi sarei anche accontentato di essere bravo, un bravo tra i bravi. Però c'era lui.
All'inizio lo ammiravo, ma senza invidie. Cercavo di non imitarlo, di mantenere uno stile e un'autonomia formale. Con il passare dei mesi e degli anni però mi accorsi che era divenuta un'ossessione. Allora iniziai a studiare le sue foto, tentati di capire cosa ci fosse di così diverso dalle mie. Inizia a stargli vicino. Quando lo incontravo a qualche evento (e con il tempo questo accadeva con più frequenza e quasi mai per caso) cercavo di mettermi al suo fianco o dietro di lui per vedere come si comportava. In realtà non pareva fare nulla di sconvolgente. Aveva molta dimestichezza con la macchina, ma del resto l'avevamo tutti. Sceglieva sempre ottime angolazioni, ma come molti. Aveva un bel arsenale di obiettivi, ma non poteva solo essere una questione di apparecchi. Una cosa diversa dagli altri, me compreso, però la faceva. A differenza di noi portava a casa pochissimi scatti. Pochi in confronto ai nostri. Se per dire io ne facevo mille, lui non andava oltre i trecento. Che sono comunque tanti ma in proporzione ricordano l'era dell'analogico, quando dovevi pensare bene a quando scattare perché i rulli erano limitati e la stampa ancora abbastanza costosa.
Ecco lui aspettava un po' di più. Mentre noi eravamo già nascosti dagli obiettivi, lui si stava ancora guardando attorno in attesa del momento giusto. Se qualcuno avesse fatto una foto alla massa dei fotografi, in più di una circostanza avrebbe visto decine di macchine scure coprire i volti guerci ed un unico viso scoperto e pensante.
Iniziai anche io a fare meno foto. Ad osservare più a lungo la scena. Anche quando non c'era lui provavo a prendermi più tempo, ma non ero comunque soddisfatto. Arrivai persino ad ignorare la scena e a guardare lui per fare quello che faceva lui. Stavo pronto con la macchina, come un cecchino, e scattavo quando scattava lui. Ma non serviva a niente.
Ero un fotografante, uno bravino, ma nulla più.

giovedì 6 giugno 2013

Dragan

Esco dal gelo sintetico dell'ufficio, alzo lo sguardo e vedo, in fondo al lungo corridoio foderato di moqutte grigia, Dragan che mi viene incontro sorridendo. E' un omone alto e con spalle larghe, la camminata ampia. Ha un ghigno divertito e con le braccia allargate e le mani chiuse mima, tirandole su e giù, due valigie pesanti. Ci metto un attimo a comprendere poi rido anch'io. Mi sta ricordando che l'Italia ha perso dalla Serbia ai mondiali di pallavolo e che quindi andiamo a casa.
La prima volta che sono andato al piano di sopra per portare dei documenti a Dragan lui mi ha fatto un grande sorriso, mi ha chiesto come mi chiamassi e in quale ufficio fossi. Io gli ho risposto poi ho chiesto il suo nome e lui mi ha detto che era sposato e aveva due figli.
Il giorno dopo decido di iniziare io e provo con lo sport. Gli chiedo se è Serbo (perché l'Italia aveva giocato il giorno prima contro la Serbia a calcio) e lui annuisce facendosi serio. In quel momento non realizzai perché lo avesse fatto, iniziai a parlare della partita e lui si distese nuovamente. Ora posso dire che quella fu l'unica volta in cui lo vidi accigliato. Più tardi capii che alla mia domanda probabilmente avevo innescato una difesa contro i brutti ricordi del periodo della guerra dalle sue parti. Quella domanda a bruciapelo "Sei Serbo?", per me innocua, forse gli era stata fatta tante volte, prima che venisse in Italia, e dubito fosse stata così innocua. Per un attimo immagino la sua storia, lo vedo scappare con la sua ragazza attraverso chissà quali confini e arrivare in Italia, lasciandosi dietro amici e famiglia. Ma non saprò mai se è andata così.
Dragan di quel periodo non vuol parlare. L'ho saputo da altri colleghi così ho sempre evitato di fare domande, anche se mi sarebbe piaciuto sentire da lui come sono andate veramente le cose. Riesco solo a sapere che viene da Negotin, una cittadina vicino al confine con Romania e Bulgaria. Ogni estate torna là con la moglie, anche lei serba, e i figli, nati e cresciuti in Italia. La figlia di tredici anni una volta lo è venuto a prendere in ufficio per accompagnarlo in Comune. Dragan doveva portare dei moduli e dei documenti e aveva bisogno di lei per farsi capire dagli impiegati.
Ah, già. Dragan e sua moglie sono sordomuti.