giovedì 13 giugno 2013

Il fotografante

Sono un fotografo. O meglio lo ero. Ero un fotografante.
Mi è sempre piaciuta la fotografia, fin da quando c'erano i rullini. E allora da grande ho pensato di farne una professione. Andare ai grandi eventi politici, immortalare le star, mettermi la casacca arancione con scritto Press alle Olimpiadi. No, il reportage o gli scatti d'autore non sono mai stati il mio forte. Mi piaceva lavorare per la stampa, non tanto per conto mio. Quando sono in giro da solo o con la mia famiglia faccio qualche foto ma non impazzisco, non vado in Karzighistan o sui monti della Sencillas per trovare lo scatto da Pulitzer.
Dopo una decina d'anni però ho smesso. Ho smesso perché non riuscivo ad essere il migliore. Perché sì, ci sono i migliori anche nella fotografia da stampa, sportiva o di cronaca, anche lì si riconosce chi ha talento e chi no. E anche oggi che con le macchine digitali si possono fare centinaia di scatti e poi scegliere e fare mille ritocchi in post, nel giro si sa chi è davvero una spanna sopra. E io non lo ero. Ma se non avessi incontrato il migliore mi sarei anche accontentato di essere bravo, un bravo tra i bravi. Però c'era lui.
All'inizio lo ammiravo, ma senza invidie. Cercavo di non imitarlo, di mantenere uno stile e un'autonomia formale. Con il passare dei mesi e degli anni però mi accorsi che era divenuta un'ossessione. Allora iniziai a studiare le sue foto, tentati di capire cosa ci fosse di così diverso dalle mie. Inizia a stargli vicino. Quando lo incontravo a qualche evento (e con il tempo questo accadeva con più frequenza e quasi mai per caso) cercavo di mettermi al suo fianco o dietro di lui per vedere come si comportava. In realtà non pareva fare nulla di sconvolgente. Aveva molta dimestichezza con la macchina, ma del resto l'avevamo tutti. Sceglieva sempre ottime angolazioni, ma come molti. Aveva un bel arsenale di obiettivi, ma non poteva solo essere una questione di apparecchi. Una cosa diversa dagli altri, me compreso, però la faceva. A differenza di noi portava a casa pochissimi scatti. Pochi in confronto ai nostri. Se per dire io ne facevo mille, lui non andava oltre i trecento. Che sono comunque tanti ma in proporzione ricordano l'era dell'analogico, quando dovevi pensare bene a quando scattare perché i rulli erano limitati e la stampa ancora abbastanza costosa.
Ecco lui aspettava un po' di più. Mentre noi eravamo già nascosti dagli obiettivi, lui si stava ancora guardando attorno in attesa del momento giusto. Se qualcuno avesse fatto una foto alla massa dei fotografi, in più di una circostanza avrebbe visto decine di macchine scure coprire i volti guerci ed un unico viso scoperto e pensante.
Iniziai anche io a fare meno foto. Ad osservare più a lungo la scena. Anche quando non c'era lui provavo a prendermi più tempo, ma non ero comunque soddisfatto. Arrivai persino ad ignorare la scena e a guardare lui per fare quello che faceva lui. Stavo pronto con la macchina, come un cecchino, e scattavo quando scattava lui. Ma non serviva a niente.
Ero un fotografante, uno bravino, ma nulla più.

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