Sangre
taina
L'isola
di Mayaguana è la più meridionale delle Bahamas e giace al limitare
del grande salto nell'Atlantico, più o meno alla stessa distanza da
Cuba e Haiti o meglio (come agli abitanti piace dire) a metà strada
tra la Florida e Puerto Rico (sembra che questa localizzazione suoni
più familiare e simpatica ai turisti).
È
qui, in un piccolo “settlement” sulla costa occidentale chiamato
Pirates Well che incontro Izel Amertil, un'anziana ma pimpante
signora caraibica, che da sempre vive e lavora al Baycaner Beach
Resort. Che a dire il vero ha poco del resort, ma almeno si può
pagare con la carta di credito.
Izel
mi racconta la storia della sua famiglia, una delle prime a migrare
da Turks Island, un'isola molto più grande a circa 60 km a sud di
qui, all'inizio del diciannovesimo secolo. Prima di allora
quest'isola era deserta, eccezion fatta per un antico e misero
approdo spagnolo, semidistrutto e da tempo inutilizzato.
Il
racconto è molto avvincente e io non la interrompo quasi mai. Ad un
tratto però, quando pronuncio la parola “caraibica” lei si
blocca e per le prima volta la sua giovialità si affievolisce.
Capisco di aver detto qualcosa di sbagliato, forse di offensivo.
“Yo
no soy caribe” mi dice, calcando molto l'ultima parola. “Yo
tengo sangre taìna!”
Izel
mi spiega che i taìnos erano gli abitanti pre-colombiani di quella
parte delle Antille, dalle Bahamas fino a Puerto Rico, Hispaniola e
gran parte di Cuba (ma non tutta, precisa). L'arrivo degli europei li
ridusse drasticamente e oggi si ritiene una etnia scomparsa. Izel
però insiste nel dire che ha sangue cento per cento taìno e mi
convince a visitare la sua collezione di cimeli indigeni.
In
una piccola e buia stanza della casa, non lontana dal resort, ha
allestito una sorta di museo personale, fatto di monili e oggetti per
la pesca, statuette bizzarre e pietre incise. Ma il pezzo che mi
incuriosisce di più, e che si trova al centro della camera, è la
statuetta di una divinità, dalla faccia allungata e deforme,
attaccata ad un corpo sproporzionatamente piccolo. Izel mi spiega
trattarsi di Yucahù, lo spirito buono, fratello di Juracàn, dio
malvagio dei fulmini e delle tempeste (dal quale poco dopo intuisco
deriva il termine spagnolo huracan,
che vuol dire proprio uragano,
fenomeno evidentemente sconosciuto agli iberici prima di “scoprire”
quei luoghi). Mi dice che un suo avo, che era un importante cacique,
un capo villaggio, usava questa statuetta per contrastare le tempeste
marine. Secondo i racconti dei suoi nonni, questo avo, di nome
Jumacao, una volta fece un patto con Juracàn e riuscì a fermare una
terribile tempesta che aveva già distrutto i villaggi di alcune
isole vicine, proprio al limitare della baia. E da quel giorno,
finché egli fu in vita, Juracàn non disturbò più l'isola. Ma
quando egli morì il dio si ripresentò, con più violenza della
volta precedente e gli abitanti furono costretti a scappare. Da quel
giorno l'isola venne inghiottita dalle acque scure dell'oceano.
Prometto
a Izel di scrivere un racconto su questa storia e lei mi regala un
pezzetto di pietra, nel quale si intravede un'incisione sbeccata. Izel mi
dice che faceva parte della casa del suo avo. Oggi quel pezzetto di pietra è incastonato sopra la porta di casa nostra.